venerdì 27 febbraio 2009

L'occasione della forma 8^ - Anima di piccione


“Niente vettura Esteban… Ti va di fare quattro passi fino all’albergo?”
“Come vuole Don Gaudì…Qualche chilometro a piedi non ci farà male”. Il giovane assistente di Antoni si strinse nel pastrano nero e, perplesso, pensò che il clima non era ancora così felice. Tanto da permettersi passeggiate a notte fonda.
Ma dopo essere stati seduti a parlare tante ore, rimettersi in movimento prima di andare a dormire era cosa gradita.
Constatò attraversando le vie di Montmartre quante occasioni potesse offrire quella Parigi a un giovane come lui. Ambizioso di successo, ma soprattutto di piaceri.
Si sentì come un bambino che passa davanti alle giostre, mentre il suo papà, suo nonno, lo trascina via per la mano…

Antoni, dopo un po’, interruppe il silenzio.
“Domani mattina – fece roteare la sua mano destra – dobbiamo fare una cosa. E tu devi aiutarmi”
“Certo”
Al giovane Labruna questo livello di intimità cominciava a non dispiacere. Fino ad allora aveva visto Don Gaudì come una sorta di monumento vivente. Un uomo che alla somma arte, al carisma dei suoi successi e a quello naturale della sua età, aggiungeva la silenziosità delle persone che “possono” molto. Sotto molti punti di vista.
In quel periodo di tempo “a bottega” da lui, quello che aveva imparato di comprensibile, lo doveva solo al suo spirito di osservazione, spesso peraltro latente.
Antoni Gaudì non gli aveva insegnato molto, a parole. Aveva lasciato che lo si osservasse.
Esteban si rendeva conto di essere un privilegiato per questo, ma troppe volte se lo dimenticava nelle pieghe ombrose del carattere di quell’anziano.
“Secondo te da quale stazione partono i treni per la costa atlantica?”
“Io credo… Non ne sono sicuro, ma immagino che la Gare du Nord sia quella più importante Don Gaudì”
“Bene, facciamo finta che sia quella. Dobbiamo essere là per le sette di domani mattina…”
“E poi?”
“E poi andiamo sul binario dei treni che partono per Le Havre… C’è una persona che dobbiamo trovare”.
“Il signore della lettera?…L’americano”
“Sì, daremo qualche spicciolo al capotreno e ce lo faremo trovare…”
“Va bene Don Gaudì. Ce la faremo… Questo signor Howard. E’ un architetto?”

Sulla rue sfrecciò una lunga autovettura scoperta. Rallentando nei pressi del marciapiede una giovane si alzò dal sedile posteriore e, sorretta dai suoi due compagni di viaggio, schiamazzò “Allez mes amours! Embrassez Paris...Voilà le primtemps! Allez!...Allez!”
E, con la macchina che riprendeva velocità, si era aperta il vestito all’altezza del seno prosperoso, esponendolo ai due architetti.
Il suo sorriso ubriaco, ma non solo quello, contagiò Esteban che rispose al saluto da giovane impomatato e impulsivo quale era
“Je te baiserai mon amour!...Toi et tes souers!” E si era sbracciato nel saluto.

“Esteban…Tu sai cosa vuol dire “baiser” vero?”
“Baciare. Don Gaudì”
“Non soltanto” Fece una pausa come di biasimo. Poi aggiunse:
“Il signor Howard non è un architetto, per come la pensiamo noi. Ma sono cose che non ti possono interessare”
Esteban si scrollò leggermente nel pastrano e continuò il passo a fianco di Antoni Gaudì. Giudicò di essere circa a metà strada dall’albergo. Gli sembrò davvero un lungo percorso.

La mattina dopo, alle 7 in punto, Gaudì e il suo adepto erano al binario 21 della Gare du Nord. Diedero qualche franco al capotreno che, non solo controllò le carrozze una a una, ma tardò la partenza di almeno cinque minuti, prima di appoggiarsi alla balaustra dell’ultimo vagone e allargare le braccia sconsolato.
Antoni ed Esteban si erano fermati in mezzo al fluire dei passeggeri sulla banchina, alla ricerca di un viso somigliante, della faccia giusta. Ma, per quanto di biondini dal mento sporgente ne fossero passati, Howard Lovecraft non c’era. E non ci sarebbe stato per tutta la mattina, nonostante le attenzioni dei due, che avevano atteso, insieme ai rispettivi capotreni, la partenza del treno delle 7 e 17, delle 9 e 24 e di altri due convogli. Compreso l’ultimo di quella mattina alle 12 e 26.
Tutti i treni che giunsero a Le Havre nel pomeriggio, alla fine, ebbero dai cinque ai venticinque minuti di ritardo. Oltre a quello fisiologico.
Alla sede della SNCF di Le Havre spiegarono questa pioggia di ritardi con l’incompetenza della sede parigina e ci fu uno scambio di missive infuocate nella settimana a seguire.

Howard, giudicando che avrebbe potuto dormire comodamente in treno, aveva invece abbandonato l’ostello con una sera d’anticipo, per risparmiare pochi franchi e poterli impegnare nell’acquisto di generi di conforto per il viaggio.
Carta per le sue ispirazioni improvvise che non potevano essere soddisfatte dal suo debordante taccuino, qualche rivista inglese e francese per cercare di migliorarsi nella lingua e, soprattutto, un lavaggio a secco per la sua giacchetta che consegnò alla lavanderia del transatlantico, non appena ebbe preso possesso della branda in terza classe.
Se si fosse presentato a New York dalla sua ormai ex moglie in quello stato, le avrebbe dato una soddisfazione troppo grande in vista della separazione.
“Se quello sfacciato piccione – si disse, mentre pagava i 12 franchi di tintoria- non mi avesse fatto la cacca addosso, forse avrei potuto passare una notte in più a Parigi. Tornarci sarà un’impresa”.

Sulla via del ritorno dalla “Gare du Nord”, Antoni fece fermare la vettura messagli a disposizione dall’organizzazione del convegno davanti ad una banca. Diede a Esteban tutti i franchi e i pesos che aveva in tasca e gli disse: “Giovane, entra lì…Con questi, fatti dare tutti i dollari che puoi”.
Esteban tornò, perplesso, dopo una decina di minuti con 72 dollari e 23 centesimi e li mise in mano al suo maestro, insieme alla ricevuta. Antoni Gaudì l’infilò in tasca e, una volta sceso davanti all’albergo, diede appuntamento al suo assistente nella propria stanza.
“Domani mattina –gli disse quel pomeriggio- appena apre la posta qui di fronte, effettuerai un vaglia indirizzato al signor Howard…
“Al signor Lovecraft sì..”
“Sì…All’americano. L’indirizzo sai dove prenderlo. Userai tutti i dollari che ti hanno cambiato oggi” E mise sul tavolo il malloppo.
“Poi imbucherai una lettera che avrò provveduto a farti trovare sotto la porta. Scegli l’affrancatura più costosa, quella per il recapito più veloce. Domani, quando ti sveglierai, la lettera sarà lì.
Bada loco Esteban…” E lascio cadere la minaccia bonaria.

Esteban Labruna passò una notte inquieta e il mattino dopo eseguì alla lettera le indicazioni del suo maestro.

Anche per Antoni non fu una notte banale. In vestaglia, ritto davanti alla sua finestra più ampia, stette per ore in contemplazione di quelle strade parigine, si perse coi suoi pensieri nel brulicare della gente, fra le luci deformanti dei lampioni che si riflettevano nei suoi occhi. Fissi, come se avessero smesso di cercare. Fu poco dopo aver riconosciuto, dall’alto, l’azzimato Esteban che rientrava giocondo in albergo, che pensò finalmente di scrivere.
Si sedette al tavolino e inforcò le lunette, sforzandosi di essere semplice nel suo scrivere spagnolo.

Gentile signor Howard,
valga questa Mia a parziale scusa del mio atteggiamento nei suoi confronti ieri mattina.
Le persone pensano di me che, solo per il fatto di essere un architetto famoso, debba anche essere un ottimo maestro di cerimonie. Non è così. Se ne sarà accorto. Spero mi scuserà.
Così come mi scuserà per quel suo cognome che ancora non ho imparato a pronunciare, ne tantomeno a leggere. Io, come disse lei ieri, sono un uomo di tratteggio, di chine e cantieri; lei è un uomo di penna. Ho imparato in queste ultime ore ad apprezzare la qualità della sua arte. Ho imparato quanto la scrittura possa essere disegno, concezione di spazio, misura delle dimensioni che ci circondano. Ho riconosciuto quanto l’abbia (ingiustamente) sottovalutata. Di più: ignobilmente derisa.
Ho letto attentamente le sue pagine e sento una certezza pervadermi. Una certezza che nasce non dalle uguaglianze fra le nostre case e nemmanco dalle filosofie con cui (così diversamente) le giustifichiamo. Io nella dura pietra, lei nella fragile carta. Io nel mio canto terreno rivolto a Dio, lei nel suo sussurro onirico volto all’oscuro.
La mia certezza nasce da una disuguaglianza o meglio, signor Howard, dal nominare diverso ciò che nella realtà è uguale. Ed è particolare curioso se penso che dai tetti di Milà nasca questa convinzione.
Lei ha chiamato “gufi” i comignoli della sua casa, dandone immagine e forma perfetta nella descrizione, del tutto uguale alla realtà sui tetti di Milà. Vent’anni orsono, quando sentii l’esigenza di disegnare quei comignoli li chiamai anch’io così.
Nella mia testa, da allora, restarono i “Gufi di Milà”. Ed è un piccolo segreto di architetto catalano che non ho mai rivelato a nessuno.
Non importa come in questi venti anni li abbiano definiti: paladini, guardiani, armigeri, cavalieri. Importa, ora, che per me siano e restino i “Gufi di Milà”. E’ un segreto. Un segreto per tutti, ma non per lei che ha reso in prosa ciò che io ho pensato in pietra e ferro. Ed ha nomato ciò che io ho custodito.
E’ questo che mi ha convinto, gentile signor Howard. Ed è per questo che le ho inviato del denaro. Per far sì che lei possa agevolmente effettuare altre traduzioni dei suoi scritti.
Quando sarà pronto, non esiti a contattarmi. Sarò lieto, anzi grato a lei, se vorrà essere ospite nella mia dimora di Barcellona e renderla partecipe dei miei lavori.
Mi comunichi quando deciderà di venire. Provvederò a prenotarle il viaggio. Non si dia pena per le spese. La sua creatività non ha prezzo, come il mio piacere di averla ospite.
Forse nella sua sconfinata ed irreprensibile architettura, Dio ha voluto farci testimoni e agenti di questa occasione della forma.

Suo
Antoni Plàcid Guillem Gaudí i Cornet


L’anziano architetto vergò a mano l’indirizzo del mittente sul retro della busta e lasciò ad Esteban il compito di intestare la lettera. Poi con passò gentile andò ad infilarla sotto la porta del suo assistente.
Diede un’altra occhiata dalla sua finestra e sorrise di gusto, per la prima volta da qualche giorno.
Parigi era quella che doveva essere. Come uno stereotipo fedele a se stesso. La “città delle luci” che non dormiva mai. La città nella quale tutto era possibile.

martedì 24 febbraio 2009

L'occasione della forma 7^ - Casa Milà



Antoni si disse di pensare il meno possibile. Si convinse di lasciarsi trasportare dalle parole. Belle o brutte che potessero essere, bene o male articolate in quelle righe. Nelle distribuzione di quella calligrafia ordinata e chiarissima. Da contabile messicano.
Pensò, spalancata la cartella di Howard, che avrebbe dovuto leggere una prima volta e poi, eventualmente, una seconda, qualora ne fosse valsa la pena. Nel caso in cui quegli scritti lo avessero convinto. Cerco di scacciare lo scetticismo radicale, dette un’oliata al meccanismo a scatto che regolava quella voglia di voler credere e poi attaccò a leggere. Non prima di aver appoggiato sul tavolino il suo orologio da polso. Ben in vista, come di chi ha poco tempo da perdere.

Lasciò cadere i suoi occhi nel silenzio assoluto. La sua iride indefinita cominciò a tallonare le parole, nero su bianco. Da destra sinistra, da destra a sinistra. Sempre più velocemente, sempre più agganciate a quel periodare asciutto, a qui termini così inusuali, a quel raccontare obsoleto.
La descrizione partiva dalla morbidezza “affiascata” della facciata principale, come di un edificio un tempo ritto e slanciato che, per effetto di indefinibili prolassi, ricadeva percettibilmente su se stesso. Come di essere che s’insacca per via di una altissima caduta. Come di pelle animale che penzola e si ripiega a causa di imprevisti svuotamenti.
Trovò, fra le linee, fra le parole, una capacità di descrivere inusuale sin dalle prime frasi. Un dar voce ai suoi pensieri che ne stimolò la curiosità, mano mano che si saliva nel descriverne l’esterno. Un inno alla curva – lui lo aveva voluto così . “Render mobile e cangiante la pietra porosa. Far del granito un mare mutevole nel centro di Barcellona” era stato il suo obiettivo – un obiettivo che riprendeva forma, lentamente, nel descrivere di Howard. Dalla foggia delle balconate, alle balaustre, ai mosaici, tutto secondo una corrispondenza quasi pedissequa.
“Questo tizio ha copiato” si sussurrò in catalano stretto, quasi a volersi rassicurare.
“Ma ha grande talento” Aggiunse nella mente inquieta.
Poi proseguì sempre meno tranquillo: le finestre oblunghe, i battenti deformi, le ceramiche, i mosaici. Il periodare dello scrittore americano, sebbene greve in certi punti, appariva agile a lunghi tratti. Come di macchina che si accende sobbalzando e poi parte con un canto stabile, salvo poi riprender fiato con un tossire profondo.
Una descrizione minuziosa dei cortili interni. Ovali, come Antoni li aveva voluti, a simbolo del mondo terreno e trascendente che si sovrappongono e si scambiano.
Alle frasi di Lovecraft, mentre il maestro leggeva, tutt’intorno era il vuoto pneumatico della creatività. La materia degli arredi nella stanza d’albergo che colava e riprendeva forma, si allungava, si dilatava fondendosi in una continua monade di colori che ondeggiavano prima di riallocare la figura dell’architetto seduto. In un nuovo punto di casa Milà, strumentale al racconto di Howard.
Così, leggendo, Antoni sguinzagliò i suoi cani gemelli che corsero all’impazzata intorno a quell’edificio, si bloccarono, segugi, di fronte alla sua facciata e controllarono le parole dello scrittore, comparandole alla reale misura. Osservarono, contarono, calcolarono e ritornarono indietro, riacquistando le sembianze del maestro prima di traslarvisi dentro.
Ora Antoni dall’esterno era entrato nella casa di Howard, e vi si muoveva come nel suo studio catalano. Leggeva e figurava, movendosi nella sua mente, di attraversane il portone di salirne la bizzarra scalinata circolare e di entrare, passo a passo, in ogni stanza.
Il racconto di Howard si faceva via via più asciutto, sempre meno orrorifico, sempre più reale. O almeno così sembrava ad Antoni, attento alle sfumature cromatiche, a quell’incassellare verbale di tasselli in mosaici variopinti, sempre più i suoi mosaici, se non perfettamente nella forma, certamente in quell’idea di bellezza che, si ricordava perfettamente, aveva fatta sua mentre li concepiva ormai più di vent’anni prima.
Sfrondato da riferimenti onirici, desfogliato dagli orpelli narrativi strumentali a una vicenda immaginaria che non gli importava, quella casa descritta dallo scrittore americano era la sua. Certamente la sua.
Se lo disse mentre, tirando un poderoso sospiro, si tolse le lunette abbarbicate alla punta del naso e con le dita si massaggiò gli occhi come a prender pausa.
Quattro pagine fitte di descrizione. Gliene mancava una da leggere.
“12 dollari…Il messicano s’è fatto pagare, d’altra parte con tre dita in meno..Per quanto, ha fatto un buon lavoro”.
Scacciò via scettico il pensiero che davvero quella articolata descrizione potesse essere il frutto di una incredibile coincidenza. Non pensò, con malizia, che Howard potesse essere un millantatore in cerca di artistiche benedizioni, nemmanco un nuovo adepto alla ricerca di un vate. Pensò semplicemente che uno scherzo strano avesse preso l’americano un giorno e lo avesse convinto di aver concepito una casa che in realtà aveva già visto. Si domandò se Howard fosse un frequentatore di cinematografi, cosa leggesse abitualmente, di quali personaggi potesse essere composto il suo microcosmo di scrittore onirico di talento. E quale fosse la preparazione di queste persone. Si chiese se bevesse abitualmente, o se facesse uso di morfina per alleviare…
“…Alleviare il disturbo di una vita non abbastanza felice. Non abbastanza dolorosa”
Prima che questo pensiero potesse scivolare verso la compassione Antoni sentì dentro di sé come il pizzicare di una voce profonda. Un riverbero monocromatico che si faceva luce piena.
Si rivide nella calle De Los Fuentes cinquant’anni prima, con il suo viso giovane puntato verso l’alto, la sua fronte sudata, il suo sguardo fisso. Si fece tenerezza. Ancora una volta.

Riappuntò i suoi occhiali al naso e riprese la lettura.
Sapeva come di una trama scontata che il viaggio descrittivo di Howard lo avrebbe portato sui tetti di quella casa. Sentiva che, in qualche modo, là si sarebbe deciso.
Lesse veloce, con la velocità che gli anziani non conoscono, ma solo le menti lucide. Lasciò che la velocità imprimesse nella sua mente solo gli indizi in rilievo, quelli che potessero emergere alla sua ricerca, in una tela per il resto, e solo per lui, scontata.
Una lettura in negativo come di fotografia che potesse rivelare impensabili dinamiche creative. Altre coincidenze, infinitesimali, che non potessero definirsi tali.
Poi ebbe un sobbalzo impercettibile.
Chiuse la cartella di pelle scura con uno colpo secco, infine. Strinse le mani come in preghiera, portandosi il pollice a massaggiare il labbro.
Quel giorno non avrebbe letto altro.

“Esteban! – fece, alzatosi di scatto e affacciatosi al corridoio – Esteban!”
Dalla porta affianco fece la comparsa un giovane impomatato in vestaglia.
“Don Gaudì ha bisogno?”
“Sì che ho bisogno. Prendi questo foglio. Sotto ci sono scritti degli indirizzi. Uno deve essere di un albergo o di un ostello qui, a Parigi. Voglio che vai di corsa là e chiedi del signor…Del signor…Insomma trovi tutto scritto su questo foglio. Gli darai il biglietto che ti scrivo…Aspetta”
Antoni rientrò nella sua stanza e ne uscì dopo pochi secondi con una piccola busta in mano.
“Ecco. Dagli questo, poi aspetta. Aspetta di accompagnare da me questa persona. E’ un americano biondo…Vai! Di corsa!”
Dopo pochi minuti sentì bussare alla porta
“Don Gaudì… - fece il giovane assistente imbarazzato– Don Gaudì lei cerca questo signor Lovecraft?”
“Certo loco…Sei ancora qui?”
“Don Gaudì ma…Come faccio a trovarlo? L’indirizzo. Non c’è”
“Come non c’è?” Chiese Gaudì innervosito. Esteban Labruna non lo aveva mai visto così in due anni.
“Non c’è Don Gaudì…Guardi anche lei. C’è solo quello in america”
Antoni riprese l’ultima delle quattro pagine che aveva letto e constatò che il suo assistente aveva ragione. Vergata a mano libera c’era solo la firma di Howard e l’indicazione del suo indirizzo di Providence. Rhode Island.
“Grazie “ Fece al giovane, recuperata la calma.
“Ci vediamo fra un’ora nella hall...Per il convegno. Tu mi accompagnerai”
Rientrato in camera, ripensò a quell’ultima pagina. Un dettaglio in quel periodare. Una frase, una descrizione aveva girato il senso di quel bizzarro pomeriggio.

Antoni non si scoprì inquieto per quella rivelazione, anzi. Si rincontrò lucido, freddo.
Sapeva che cos’era. Era il suo senno che lo richiamava all’ordine. Era, anche se lui non avrebbe mai osato riconoscerlo, il segreto del suo genio. L’arma vincente della sua mente superiore.
La stessa che lo portava a risolvere un problema di carichi e spinte in strutture dalla forma bizzarra, splendidamente coordinata, facendo dei calcoli elementari, attraverso la via matematica più immediata.

Era quella: la capacità di fare pensieri semplici, quando le cose si complicavano.

Il pensiero semplice che fece Antoni quel tardo pomeriggio fu che aveva bisogno di parlare di nuovo con Howard.

venerdì 20 febbraio 2009

L'occasione della forma 6^ - Il pesce di Howard


Howard non amava la gente. Complessivamente intesa. Considerava la massa come una deformazione dell’unicità. Una sorta di grande catino, dove venivano appiattite volontà, istinti, attitudini e quant’altro. Non amava mischiarvisi, infilarsi all’interno, respirare la stessa aria, inspirane gli effluvi.
Pensava, a ragione, di esserne condizionato.
La sera dopo a Le Havre prese il suo posto in terza classe su una branda disconnessa che provvide a riassestare con delle tacche improvvisate.
Il suo misero bagaglio, una valigia, un borsone, una tracolla appoggiati per la faccia più spaziosa, formarono, accanto, un sorta di scrittoio
“Dove – pensò - potrò trovare appoggio per scrivere”.
I suoi 32 giorni di Europa lo avevano portato in Italia, quindi in Francia.
Nel Polesine aveva soggiornato per qualche giorno, dopo Genova, Firenze e Venezia. Aveva attinto dalle leggende locali, dai racconti, spesso male interpretati, dei pescatori di anguille; aveva tratto ispirazione per futuri racconti. Si era lasciato cullare da quel fiume pacioso e infido, aveva desiderato soggiornare in quelle case-baracche che facevano capolino dalle acque su quelle sponde, sempre mutevoli, di quel delta informe. Sempre disuguale a se stesso.
Aveva immaginato creature tentacolari emergere dalle acque, figure indefinite prendere forma dal fango, mondi sommersi nel torbido profondo. Popolazioni di uomini-pesce dalla crudeltà infinita.
Da un pescatore si era fatto raccontare di una nuova creatura che cominciava a popolare quelle acque. Un essere che definirlo “pesce” appariva riduttivo.
Gli abitanti locali, quelli più impermeabili alle leggende, lo descrivevano come uno squalo d’acqua dolce. Un grosso predatore dalle fauci appiattite che cominciava a rappresentare una minaccia vera. Per la fauna ittica del posto, ma anche per gli uomini, azzardavano i più suggestionati. Si diceva che venisse dai fiumi del nord Europa e che, nei secoli, le sue uova erano passate, come in una transumanza epocale, di ruscello in ruscello, di stagno in stagno, di torrente in torrente. Dalle steppe dei fiumi siberiani, attraverso il Danubio , fin giù. Su quel Po nebbioso.
Si diceva, lo dicevano anche i pescatori meno fantasiosi, che alcuni potevano inghiottire animali di piccola e media taglia. Il pescatore sdentato che aveva cercato di spiegargli ad ampi gesti, pareva aver visto di persona anatre intere sparire nel ribollire melmoso del fiume.
Più avanti nel suo lentissimo viaggio, aveva costatato come la leggenda avesse preso il posto della cronaca, come un fatto fosse alla fine deformato dalla superstizione, dalle paure irrazionali di un luogo fuori dal mondo. Dove nebbie d’inverno e afa malsana d’estate contribuivano a deformare tutto e renderlo unico nella sua concreta irrazionalità.
Così quello “squalo d’acqua dolce”, mano mano che ci si avvicinava alla foce del fiume, diventava nei racconti sempre più grande, sempre più agile e pericoloso per l’uomo. Ed egli stesso sempre più uomo, assumendo quei tratti antropomorfi che avevano finito col suggestionare la fantasia già estrema di Howard che gli aveva attribuito il nome gutturale e incomprensibile di qualcosa che non c’è. Creatura metà uomo e metà pesce con tentacoli errabondi e una pinna dorsale. In grado di mutare il suo avanzare da passo umano, a strisciare di serpente, a incedere basculante di piovra sulla terraferma.
In vista del mare, infine, Howard si era imbattuto in un gruppo di pescatori adunati attorno a una rete. All’interno si dibatteva energico un grosso pesce di più di due metri di lunghezza, di color grigio con una grossa pinna ventrale e lunghe vibrisse carnose attorno alla bocca. Sventrato con macabra soddisfazione degli astanti, il grosso esemplare rivelò all’interno i resti di altri pesci, di anguille, pietre, alghe e un becco ossuto di inequivocabile origine volatile.
Era quello il suo “shoggoth”?
Quella sera si era trattenuto con quei pescatori felici, aveva bevuto del loro vino rosso pastoso, si era seduto alla loro tavola affumicata, aveva frenato il freddo pungente con quel liquore neutro che bevono gli italiani del nord-est. Si era nutrito della sua creatura di fantasia anche, immersa in una broda vegetale dal discreto sapore. Aveva sorriso con la sua bocca sottile e il suo mento sporgente e si era abbandonato al caldo ed ospitale tepore di una branda vicino al fuoco. Non prima di essersi ritto in piedi, stupendo i suoi compagni di banchetto, e aver biascicato in un incomprensibile inglese “Degno è chi si nutre della propria immaginazione”.
La risata generale fu l’ultima cosa che sentì quella sera.

La mattina dopo era ripartito per Bologna e da lì aveva preso la volta di Torino. Un lungo viaggio in treno lo avrebbe atteso fino alla Parigi del congresso degli architetti.

Che magnifico viaggio era stato quello. Lo constatò una volta di più aprendo la sua agenda, sulla quale erano raccolte tutte le ispirazioni, scarabocchiate inequivocabilmente, pagina per pagina, luogo per luogo. Dai carruggi maleodoranti di Genova che gli sembrava avesse esportato fino a New York quell’idea di multirazzialità che lo deprimeva e lo esaltava al contempo e dove in pochi giorni aveva fatto sua la miasmosa visione di caverne inesplorate ed immense. Di popolazioni riottose alla luce del sole, di sterminate fila di esseri metà uomo e metà medusa, acquattate nel buio di quei meandri e pronte a fagocitare il nostro mondo conosciuto, i cui deformi adepti umanoidi si aggiravano indisturbati, in vista della prossima aggressione dei loro padroni.
Nella Firenze contemporanea s’era fermato in contemplazione solo pochi giorni. Come in estasi Davanti alle sue bellezze rinascimentali. Aveva sostato, seduto sulla scalinata del duomo, addentando pane caldo, osservando lo sciamare della gente incredibilmente abituata a un tale spettacolo. Era salito sul campanile di Giotto, aveva vacillato per il freddo pungente, per la disorientante bellezza di quella concezione di spazio, di urbanistica. Nel sublime slancio di solidità estetica che si proiettava al di sotto. Di quel bello classico, si era detto profano, avrebbe nutrito i suoi racconti futuri. Come riequilibrare, almeno in parte, il vaneggiare onirico della sua penna, il delirare abituale della sua creazione letteraria.
“Giacché l’orrore – scrisse in calce alle pagine fiorentine del suo diario di viaggio – è anche del bello che si nutre, facendo pasto del suo stravolgimento”.
Di Venezia respirò la paura, nell’incoscienza dei turisti, nell’omertà degli abitanti. Si disse che un tale prodigio, non poteva rimanere inspiegato ai loro occhi. Che la verità sulla Serenissima era in quell’avanzare di acque melmose, fra la bellezza disarmante di quelle case sospese, la tremebonda solidità di quei ponti e quelle barche dalle forme animali. Immaginò un mondo aggredito dal liquame del buio, reso schiavo, irretito come da tela di ragno nel viluppo di una orrenda civiltà emersa. “Venezia – aggiunse a piè pagina – è la bellezza del mio mondo futuro”.
Ascoltando i racconti dei barcaioli, aveva appreso del Polesine e dei suoi misteri. Là si era diretto, come a cercare una prima origine alla sua vaneggiante ispirazione.

Una volta riletti i suoi appunti sulla nave che lo riportava a casa, riservò qualche pagina bianca per scrivere dell’incontro con Antoni Gaudì. Cercò di concretizzare i suoi desideri di uomo frustrato. Immaginò l’anziano architetto cestinare i suoi scritti con repulsione, lo pensò allontanarsi da lui definitivamente una volta inghiottito dalle porte dell’albergo, fu come vederlo cassare in un solo gesto i suoi sogni di scrittore. Lo pensò anche leggere attentamente, stupirsi, riconoscere, ammettere. In cento modi e con cento gesti diversi. Fu un alternarsi prostrante nell’ozio di quella traversata.

“Che bella cosa sarebbe… – sussurrò una sera al gelo del ponte di terza classe – Che bella cosa sarebbe se il maestro Gaudì potesse credermi”.
Infreddolito, si strinse fra le braccia e non osò davvero sperare oltre.

mercoledì 18 febbraio 2009

L'occasione della forma 5^ - I cani di Antoni


A ormai più di 70 anni, Antoni Gaudì si conosceva bene. Conosceva le sue abitudini, i suoi grandi pregi, ai quali pensava sempre meno, i suoi piccoli difetti coi quali si riconosceva indulgente. In ossequio a quella porta della creatività che era più alle abitudini disdicevoli che non al comune praticare, agire, che si apriva. Così entrando nel suo elegante miniappartamento parigino non ebbe bisogno di giustificarsi con se stesso. Quando ragionò sul perché di quella perdita di tempo. Non fece altro che spogliatosi del pastrano, sedersi, e appoggiata la cartelletta del signor Howard sul tavolino di radica, sorridere delle sue debolezze.
Si ricordò con la velocità dei sogni notturni, di una sera, l’ennesima, passata da giovane architetto sulle ramblas. Di come la sua creatività ne fosse stata influenzata da lì ai decenni a seguire.
Gli tornò in mente il suo sconcerto, la sua rabbia mista a orgoglio. In un alternarsi ritmico e meccanico, come di pistoni in un motore. “Motore…L’italiano coi baffetti” sussurrò. E ne scacciò via il pensiero.

Quella sera di quasi cinquant’anni prima, con la cerveza in mano e i suoi disegni sul tavolo, aveva capito quanto è brutto non essere creduti, quando il proprio cuore è sincero.
Quanto è orribile essere plagiati dal destino, di meno: beffati dalle coincidenze.
Era il 1877. Non era ancora diplomato alla Scuola Superiore di Architettura di Barcellona, ma già collaborava coi i più grandi architetti del tempo.

“Caro Gaudì - quell’ometto irsuto lo aveva guardato, cercando goffamente di simulare ilarità – Tu stai scherzando vero? Beh…E’ uno scherzo che ti è costato un po’ di tempo, immagino”
Lluís Domènech I Montaner non era un genio assoluto. Era un leader, un trascinatore. A soli 2 anni più di Antoni era già un cattedratico. Un uomo che tracciava un solco, che altri avrebbero abbellito, trasformato in strada. Era una delle prime sere di frequentazione fra i due, in mezzo a quel coacervo di pittori, scultori, architetti e “muse” ispiratrici. In quella Barcellona periferica in tutto. Tranne che nella creazione. Nelle arti.
“Da te ci aspettiamo grandi cose – aggiunse Montaner – Forse piuttosto che nella goliardia, il tuo impegno andrebbe profuso verso lo studio. La Catalogna ha bisogno di bravi architetti…Possibilmente diplomati”

Il giovane Gaudì aveva balbettato qualche parola, come a non capire. Poi aveva cercato con lo sguardo qualche alleanza fra i suoi compagni di serata. Fra i colori della rambla, nel fresco riconquistato di quella notte azulgrana.
Nessuno, distratto dal fluire di cerveza e “franco”, aveva prestato il braccio al suo appoggio.

“Prego Montaner?” Aveva infine concretizzato interdetto prima che il silenzio diventasse imbarazzante.
“Questo. Antoni. Questo edificio…E’ la casa nella calle de Los Fuentes al Barrio Gotico” Rilanciò sorridente, con una punta di sospetto Lluis.
“Forse non era uno scherzo?” Fece, poi, impercettibilmente serio.
“Se non fossimo tutti colleghi e amici, Antoni, la prenderei come un’offesa…” E si era asciugato il baffo fluente con il tovagliolo bianco, senza distogliere lo sguardo da Gaudì.
Una parola, una sola parola sbagliata e l’immediato futuro di talento emergente sarebbe stato compromesso. Almeno nella sua Barcellona.
“Uno scherzo è uno scherzo Lluis…Ti ringrazio comunque di avermi promosso tuo collega” Aveva chiuso sorridendo Antoni mentre, con lenta noncuranza, riavvolgeva il suo lucido sul tavolo.

Il giorno dopo, a mezzogiorno in punto, quando il sole era a picco sulla Casa de Los Fuentes e le ombre non potevano distorcerne la visione Antoni Gaudì era rimasto fermo a una decina di metri dal suo portone. Ed era rimasto lì, a studiarne gli slanci, le ricadute, il gioco di spinte, la distribuzione delle forme solo impercettibilmente arrotondante, l’alternarsi dei colori.
Attese che il sole virasse su quel punto di riferimento immaginario eppure concreto, attese in piedi che le prime ombre cominciassero ad allungarsi, mentre la sua camicia cominciava a diventare bagnata e sentiva il sudore colargli sulla schiena nervosa.
Per ogni finestra un calcolo mentale, per ogni arcata un’ideale ritratteggio. Per ogni guglia un riassemblaggio di pietra, marmo e ferro. Con i rilievi cromatici che esplodevano nella sua testa e si ricomponevano ricadendo al loro posto. La casa implodeva rimpicciolendosi e poi si allungava, in un ballo di forme interiori che lo portava ogni volta sull’orlo della pazzia.
La pazzia temporanea di un architetto che diventava più uomini. In grado di girare attorno a quell’edificio, di levitare, di osservare; scomponendosi in più menti ardite, ricomponendosi a piacere nella testa di Antoni. Come un branco di ligi cani da caccia che riportano la preda al padrone.

Tre ore dopo si mosse, abbassando lo sguardo e dopo un breve giramento di testa s’infilò nella prima taverna.

“Questa casa l’ho pensata anche io – si disse convulso - mentre spalancava il suo lucido macchiato di cerveza sul tavolo. Io qui non ci sono mai stato, questa casa non l’ho mai vista. Come è potuta sfuggirmi?
Che cos’è questo allora? – si ripeteva urlando nella mente – Questo mostro che ho creato in una settimana di lavoro? Che cosa ho copiato senza copiare?”

Osservò obnubilato il preciso tratteggio su quel lucido e gli schizzi di matita che conosceva a memoria per averci lavorato decine di ore.
Gli stessi tratti, gli stessi slanci, le stesse volontà di variegata leggerezza, unite all’accondiscendente desiderio di potenza, di solidità. Anche un bambino avrebbe detto che era una copia della casa fuori, di fronte a quella taverna da pochi spiccioli.
Fece d’un colpo, con le due mani, un brusco groviglio di cartaccia in uno scatto di nevrotica ira.

Per lui quello sarebbe per sempre rimasto il giorno “De Los Fuentes”.
Come un segreto da custodire con se stesso. Un enigma, spartiacque della propria creatività.
L’offesa che il caso aveva recato al suo lavoro, gli sarebbe rimasta impressa per sempre. Sarebbe anche stata il segreto della suo genio. Come una scudisciata decisiva al suo emergere.
Si promise, mentre le sue mani accartocciavano lucidi e fogli, che la sua visione si sarebbe spinta a un punto tale da non correre più quel rischio. Si ripeté che la sua mente avrebbe concepito forme, misure, dimensioni tanto ardite che nessuno, nulla, avrebbe potuto ridurlo come in quel momento.

“Se la creatività ha dei recinti, io ne aprirò i cancelli. Nessuna dimensione, nessun canone mi potrà fermare. Niente che io non voglia.
Prego Dio! Ora, qui, che me ne dia la forza. Prego Dio che mi accompagni senza farmi impazzire. Ne risponderò solo a lui”.
Si disse che la prima cosa da fare era dimenticare quella strada, dimenticare quella casa, impedire alla sua curiosità di sapere “chi” e “quando”.

Infossato nella sua poltrona parigina, cinquant’anni dopo, constatò una volta di più che fu la vanagloria, l’orgoglio a farlo diventare il “maestro” Antoni Gaudì. Quello che chiamano “l’architetto di Dio”.
Ecco perché, sereno, inforcò le sue lunette e imbracciò quella cartella di pelle scura.

domenica 15 febbraio 2009

L’occasione della forma 4^ - 12 dollari


“Allora mi dica signor Howard. Cosa l’affligge?” Chiese ironico
“Le sue case, master. Io le trovo strane… Dico una stupidaggine da ignorante, lo so. Certe espressioni artistiche i competenti spiegano e interpretano, i millantatori osservano, gli ignoranti schivano. Ma il punto non è quanto io capisca di architettura e di forme e disegni. Ognuno di noi è quello che è. Con i suoi limiti anche.
Il punto è che la mia stessa ignoranza non mi spiega, anzi acuisce i miei dubbi e mi rende interdetto di fronte a lei…
“Case, quali case? Signor Howard. Quale di quelle che ho disegnato colpisce la sua attenzione?” Sospirò l’anziano, davvero non capendo
“Sì, glielo spiego maestro Gaudì. Ma non trovo altre parole che raccontarle quello che mi è successo qualche mese fa.
Ero a Providence dal barbiere. Le mie zie tengono particolarmente al mio aspetto, soprattutto quando vado a trovarle. E capita spesso ultimamente, tornando da New York.
Ero lì in attesa quel sabato mattina. C’era gente, almeno altre tre persone prima di me. Avrei voluto andarmene. Un colpo di barba me lo posso dare anche io, ma sono le mie zie…Tengono alle apparenze e il rito del barbiere per un uomo, secondo loro è come il cappellino in chiesa per una donna.
Mi siedo e afferro una delle riviste. Di solito è una cosa che non faccio mai. Sono molto attento alle mie letture. E’ stato il caso allora che mi ha messo in mano uno di quei magazine che circolano da noi: “Architect”.
E’ vero l’argomento – sorrise brevemente – non è al centro dei miei pensieri ma…Insomma comincio a sfogliarla. Le pagine centrali erano dedicate a lei Master Gaudì. “La casa di pietra dell’architetto di dio” il titolo era quello”.
Con fare un po’ impacciato trasse fuori dalla tasca interna della giacca il ritaglio di giornale con il titolo, la foto meno canuta dell’architetto e un disegno. Lo porse silenzioso.
“Ma questa è casa Milà signor Howard. E’ a Barcellona. Sì è un mio lavoro”
“Lo so. Ma ecco…”
“Non le piace”.
“Non è questo” Abbassò lo sguardo.
“Signor Howard parli liberamente. Ormai siamo qui, fra poco dovrò salire in camera…” I due si fermarono e Antoni Gaudì attese guardando l’americano.

La macchia sulla sua spalla era ormai asciugata. Seccata al leggero vento fresco che s’infilava fra le vie di Parigi. Due gamins si ricorrevano sul marciapiede. Un ragazzo svogliato passò spingendo il suo carretto di ortaggi. Passò una coppia di signori ben vestiti. Passò anche un fremito, come un balbettio fra le labbra di Howard Lovecraft.

“Quella casa è la stessa maestro Gaudì. La casa che ho immaginato io, in uno dei miei racconti pochi mesi prima di averla mai vista. Su quella rivista. Quel giorno dal barbiere”
Gaudì continuò a fissarlo, forse non certo di aver capito
“Mi scuso maestro. Io non ho altra sincerità che questa che le sto porgendo”
“Scusarsi per cosa? Lei mi dice che casa Milà è stata pensata anche da lei. Ma caro amico, progettare una casa non è cosa semplice…”Aggiunse per niente irritato.
“Progettarla no. Ma immaginarla sì. Per chi immagina come me…
Io non so cosa dirle ora. So che è difficile da credere e…La prego non si arrabbi, non la prenda come un’offesa. Non lo è.
Le camere curve, i tetti ondulati, i suoi comignoli, le sue scale. Io le ho immaginate a migliaia di chilometri di distanza, in un altro tempo, sotto altri stimoli.
Spero – chinò il capo leggermente – che non me ne faccia mai una colpa. Ma mi aiuti a capire maestro Gaudì”

I due uomini ripresero il passo e stettero in silenzio per qualche metro.

“Io le ho portato queste maestro. Sono le pagine del mio racconto che ho stralciato, prima di darlo agli editori. Prima di non credermi, le legga. Mi sono costate qualche soldo per la traduzione nella lingua spagnola…”
“Yo soy catalano” Sussurrò pensoso Gaudì, mentre prendeva in mano la cartella di pelle scura.
“Le ho tagliate per pudore. Nei suoi confronti. Nei miei confronti. Nel mio mondo di scrittori “onirici”, come li chiama lei, copiare non è perdonabile.
Così ho riscritto in parte certe descrizioni. L’ho fatto con sconcerto all’inizio. Con rabbia e cattiveria. Con un sottile, intimo, apprezzamento di me anche.
Il maestro si voltò un’altra volta verso il suo interlocutore, come per dire qualcosa. Poi riprese il passo.
“Le dicevo che io non ho altre prove oltre la mia parola. Spero solo che lei voglia leggermi in queste poche pagine”
“La traduzione… La traduzione quanto le è costata?”
“12 dollari, maestro…E non sono sicuro che rendano questa uguaglianza. Questa sovrapposizione… Io voglio chiamarla così”.

Lovecraft si disse ancora una volta quanto complicata fosse la sua missione.. Farsi credere abbastanza da farsi leggere. Sperare che il traduttore avesse fatto bene il suo lavoro.
Sì, l’interprete: aveva contattato Paco de Los Rios, un ex burocrate messicano in esilio volontario, direttamente nella sua casa del barrio a New York. Il profugo, travolto una quindicina di anni prima dalle orde di Pancho Villa era simpatico e loquace, aveva preso i suoi fogli e si era fatto dare 12 dollari.
Gli mancavano tre dita della mano destra. Nel quartiere raccontavano che gliele avesse fatte saltare direttamente “El Gèneral” Rodolfo Fierro durante un interrogatorio.
Una settimana dopo era tornato a riprendere la sua cartella di pelle scura. La stessa che ora consegnava nelle mani dell’architetto.
Los Rios lo aveva guardato sorridente e aveva sussurrato “Loco Ammericano”, mentre Howard già non c’era più, col naso infossato in quella bella calligrafia da contabile mancino.
Come se ci potesse capire qualcosa, in quel periodare arrotondato.
In quel fiorire di “esse” e di “cedille” ermetiche.

Davanti all’albergo, ai piedi della scalinata Antoni Gaudi, col plico di Howard sotto il braccio, si fermò, aggrottando la fronte.
“Bene signor Howard io mi fermo qui. La sua è stata una conoscenza…Una conoscenza sconcertante. Mi scusi ma non trovo aggettivi diversi. Più ospitali”.
“Master Gaudì, troverà i miei recapiti in calce all’ultima pagina. Non spero che mi scriva. Spero solo che mi legga”
“La leggerò fra poco – annuì per la prima volta bonario – ho un paio d’ore prima del convegno di stasera.
Lei è stato invadente e maleducato, signor Howard.
Nondimeno qualche volta è giusto dare un occasione alla forma. Un occasione per svincolarsi dai canoni. Siano anche quelli dei gentiluomini”.
“Domani mattina – si congedò Lovecraft – sarò in treno per Le Havre. Mi aspetta un lungo viaggio in nave per New York”
“Buon viaggio allora” sorrise l’architetto toccandosi la falda del cappello
“Grazie…Grazie per tutto” Sussurrò l’americano.

“Un dollaro per sapere cosa leggerai nelle prossime ore” pensò Howard mentre vide scomparire Gaudì fra le porte ottonate dell’hotel.
Era l’ultimo dollaro che gli era rimasto in tasca.

martedì 10 febbraio 2009

L'occasione della forma 3^ - Nessun conforto


Mentre l’anziano architetto schivava penosamente i passanti per allontanarsi, Howard giudicò quanta fretta avesse questi di distanziarsi da lui. Non ebbe il tempo di rammaricarsene. Fu un attimo e prese la decisione: improvvida quanto energica. E lo seguì. Con tutto il suo ardore, la sua brama di parlargli.
“Master Gaudì…Master Gaudì, la prego. Non se ne vada – fece, dopo essersi alzato -, ho bisogno solo di pochi minuti del suo tempo” Aggiunse che il suo passo frenetico già era sulle tracce di Antoni.
“Ci sono cose che non si possono… Sì voglio dire, non può. Lei non può trattarmi così. Se proprio non vuole parlare con me, perché le sto poco simpatico. Lo faccia almeno nell’interesse della sua arte. Delle sue certezze. Di quelle che in cui crede. Master Gaudì!”
Il tono della sua voce, seguiva dappresso la falcata del suo incedere. Avanzare di giovane leggero ed energico che lo aveva condotto alle spalle, poi al fianco di quell’architetto ombroso. Questi procedeva a capo chino, con la testa infossata nelle spalle. Senza degnargli uno sguardo, nemmeno quando Howard in una innaturale posa di movimento, aveva sincronizzato il suo passo a quello del “master” e gli parlava guardandolo dal lato sinistro. Interno al marciapiede.
Era diventata, malgrado i suoi sogni di scrittore mite e geniale, una vera e propria aggressione verbale. Uno stupro. Della tranquillità di un anziano. Della paciosa siesta di un uomo i cui pensieri valevano un nuovo modo di concepire, di estasiare forme e materie.
“Arte? – si fermò di colpo Antoni – Ammesso che lei sappia qualcosa dell’ARTE” Si fece aggressivo, mentre voltatosi fissò cosi suoi occhi profondi.
“Che cos’è l’ARTE? Guardi, odioso americano…Si guardì intorno! Le vede? Automobili!..Eppoi guardi in alto: li vede?? A-E-RE-O-PLA-NI! Un giorno un italiano coi baffi sì è svegliato e siccome sapeva scrivere: oplà! Ha detto a tutti che questi fumi di gas, tutta questa velocità, questa frenesia di muoversi, di partire, di arrivare, era arte. AR-TE! Non solo: è forma d’arte anche una pistola che spara, il rantolo di una mitraglia, la percussione di un cannone. E chissà cos’altro. E’ ARTE?. Lo chiedo a lei. E’ Arte?”
Dopo aver gesticolato a muso duro, Antoni Gaudì stette. In silenzio un attimo. Come chi si rende conto di aver esagerato e aspetta una ferita sanguinare dagli occhi di chi ha ascoltato. Incurante. Dei passanti che brulicano attorno, dello sferragliare dei tramvai. Delle suffragette incartapecorite.
Poi riprese deglutendo, recuperato il senno: “Se ne vada signor Howard. Se ne torni in America. Lei non ha bisogno di ispirazione. Non ha bisogno di un vecchio architetto. Immagino sappia scrivere. Si svegli una mattina anche lei. Scriva un manifesto e lo dia al mondo. Dica che è ARTE. Diventerà ARTE. Qualsiasi cosa ci abbia scritto”.
Poi si voltò e riprese lento il suo passo. Non aveva più bisogno di affrettarsi – ne era certo -, anche se un po’, ma solo un po’ si rammaricava. Non per lo scatto d’ira, per quel teatrale agitarsi in mezzo alla rue. Si rammaricava per se stesso. Gli anni, le notti isolato nel suo studio lo avevano reso permeabile alle intrusioni e, soprattutto, lo avevano limitato nel linguaggio. Non aveva più il dono dell’immediatezza, della sintesi, della sobrietà. Aveva perso troppe parole, fra i cantieri e i lucidi, i tecnigrafi e le solitudini. O forse non le aveva mai avute.
Lui era un uomo di tratteggio. Non di frasi.
Howard lo guardò stranito, neanche un po’ deluso. O offeso. Si limitò ad ascoltare, guardandolo arrabbiarsi.
Così, quando Antoni riprese il cammino, infossandosi ancora di più nel suo elegante pastrano, non si pose il problema, lo affiancò in silenzio per qualche passo, mentre Gaudì con un gesto impercettibile, si era allontanato dal muro, quasi a volergli ritagliare uno spazio alla sua sinistra.
Fu quello un segnale che Lovecraft seppe cogliere, visto che “ a disegnare quello spazio” era stato “l’archietto di Dio”.
“Maestro – riprese quasi sottovoce Howard- io non ho mai creduto che il mio scrivere fosse arte. Mai. Nemmeno un minuto. Io ho scritto e scrivo. Lo faccio senza pormi troppe domande.
Lo faccio perché mi va, perché mi allevia il disturbo di una vita non abbastanza felice. Non abbastanza dolorosa. Non ho pretese di scrivere manifesti, di allungare canoni sulla mia e sulla creatività di altri e… -si volle rassicurare con una breve pausa – mi scusi, ma non cerco ispirazione in lei”.
“Lei si scusa?” Sussurrò l’anziano, interdetto.
“Forse…”
“No, lei ha detto che si scusa”
“Sì”
“Bene. Credo che sia una buona premessa. Non il suo scusarsi. Ma il fatto che non cerchi ispirazione nella mia persona.
Troppe persone vengono da me, cercando conforto alle loro teorie ARTISTICHE. Mi avvicinano. Proprio come ha fatto lei. Con l’invadenza non riconoscibile nei galantuomini. Chiedono, ma poi parlano solo loro. Mi adulano..Casà Batlò di qua…Casa Milà…Guell.. In realtà cercano solo conforto. E speranza”.
“Io no”
“Non so…Non m’importa. Io non ho certezze, ne speranze per nessuno. La mia creatività non può essere di conforto a nessuno. Non è egoismo. E’ un dato di fatto”
“Io non cerco ispirazione, ne conforto, Maestro Gaudì. Voglio solo confrontarmi con lei e chiedo scusa da subito per la mia supponenza”.

Antoni nascose il suo scettico stupore cercando d’infilzare con la punta ramata dell’ombrello una carta sul marciapiede. Non voltandosi un istante verso l’ interlocutore, cominciò a meditare di concedere un opportunità a quell’americano malvestito. Che sarebbe durata poco. Lo spazio di una passeggiata fino all’albergo.
Era già il secondo spazio che l’architetto catalano disegnava per quello strano uomo.
E non erano passati che pochi minuti da quando si erano incrociati.

mercoledì 4 febbraio 2009

L'occasione della forma 2^ - Howard e Antoni


Un raggio di sole si divincolò dall’abbraccio di una nuvola residua, fendé la fessura fra le tende protese del bistrot e illuminò la fronte dell’americano.
“Maestro Gaudì – fece emozionato – mi chiamo Howard… Howard Phillips Lovecraft, vengo da Providence nel Rhode Island. Sono uno scrittore di romanzi. Ma mi cimento soprattutto in novelle e racconti brevi”
“In cosa posso aiutarla signor Lovecraft” interruppe il maestro, prima di portarsi il suo cicchetto di Porto alle labbra.
“Ecco, io ho pensato tante volte negli ultimi mesi a questo incontro…A cosa le avrei detto ed è difficile per me spiegarle. In fondo è cosa ben strana se ci penso ora, maestro Gaudì. Ci sono delle coincidenze. Come se il caso avesse voluto portarmi a lei.
So che lei è uno dei maestri dell’architettura moderna, la sua concezione di edificio, di linee, di forme, sta cambiando il modo di pensare gli spazi. Lei ha aperto. Ha aperto una nuova frontiera dell’architettura…Io sono un profano, non sono mai stato in grado nemmeno di reggere un pennino in modo corretto – sorrise brevemente – e questa cosa assume ancora un aspetto più strano se ci penso”

Dietro Antoni Gaudì fece capolino una coppia di signorine cinguettanti. Una di queste, quella più all’interno del marciapiede osservò un attimo Howard e notò quella vistosa macchia d’inequivocabile origine , in mostra sulla sua spalla. Risero di gusto, mentre lo oltrepassarono.

“E’ strano perché io di architettura non capisco nulla e non mi sognerei mai di disegnare… Nel senso più tecnico intendo”
“Male, magari ha un talento nascosto”
“Non credo maestro, ma vede ciò che la mano tratteggia, io credo la mente e il cuore concepisca. E allora quando scrivo, in qualche modo è come se disegnassi anch’io. Le mie mani sono nodose e incompetenti, ma la mia testa è in grado di disegnare, anche senza linee e curve e guglie. Almeno così mi piace pensare ”
“Che genere di romanzi scrive signor..Signor Howard”
“Io scrivo novelle, racconti di fantasia. Indago l’animo umano, cercando di carpirne i sogni… - sorrise imbarazzato – anche gli incubi”.
“Romanzi onirici. Occultismo”. Affermò il maestro senza tradirsi.
“Sì, anche. Direi soprattutto, maestro Gaudì”

Lo scrittore Phillips Lovecraft, l’uomo che aveva percorso l’Atlantico in terza classe per arrivare in Europa e si era indebitato per questo, stette per un istante in silenzio chinando il capo, come a vergognarsi. Come per paura di essere biasimato.

Antoni Gaudì da Barcellona, avvicinato quasi furtivamente, abbordato come si farebbe con una bastimento carico di preziosi nel mare di quella di Parigi turbolenta e creativa, si perse con lo sguardo verso la strada trafficata. Gli capitava di perdersi nei suoi pensieri, abbandonato temporaneamente dalla sua creatività; in libera uscita dai numeri, dai carichi, dalle spinte, dalle volte. Da tutti quei calcoli infinitesimale, quel tratteggiare convulso del suo studio catalano…Non era un bel segno.
Gli capitava quando sentiva imbarazzo e sentiva quel disagio che provano le persone di genio, costrette a parlare controvoglia.
Si sentì come una di quelle avvenenti cocotte. Tutti vogliono possederle almeno una volta, ma a nessuno interessa davvero del loro benessere.

L’architetto di Dio, il genio della Sagrada Familia. Sua croce. Sua delizia soprattutto. L’uomo che da anni lavorava 18 ore al giorno nel nome del Signore e che al signore stava dedicando la sua opera più importante, non riuscì a trattenere dentro di sé un moto di sdegno ben poco cristiano.
Un rifiuto ad esser lì in quel momento.
“Un ennesimo scocciatore” Si disse. E si ripetè constatandolo amaramente.

“Io ho qui una serie dei miei racconti. Con questi riesco a viverci a stento, ma è la mia vita.
Io vorrei farglieli leggere, ci terrei davvero tanto e vorrei spiegarle che alcune volte…
Sorrido perché non vorrei sembrarle borioso ma…Alcune volte si parte da lontano, da strade opposte, senza volersi incontrare, ma questo avviene. No, maestro. Non sto parlando solo della realtà. Parlo dell’immaginazione, di quei sogni che diventano reali solo per il fatto che noi ci siamo. Gli diamo un corpo, una forma, una dimensione. Non importa l’arte nella quale eccelliamo, quella è solo un mezzo.
Se lei potesse…

“Caro signor Howard, a parte la fatica che fa a parlare nella mia lingua, cosa che apprezzo, non creda. Penso anche che il momento sia inopportuno. La mia vita stessa lo è. E’ troppo breve per le cose che ho in mente io, troppo breve anche per dedicare tempo alla sua lettura. Sono certo che troverà altre vie per ispirarsi.
A un uomo del suo impeto non mancherà occasione”.

Inarcando il folto sopracciglio su quell’ironico “impeto”, si trasse dalla sedia e con un piccolo toccò sul cappello diede di saluto all’americano invadente.

Howard rimase lì, rigido e seduto. Con il suo plico di pelle marrone che aveva attraversato l’oceano e la sua macchia scura sulla giacchetta a buon prezzo.
Anton aveva detto bene: “…A un uomo del suo impeto non mancherà occasione”.
E infatti non mancò. Di lì a pochi istanti.

martedì 3 febbraio 2009

L'occasione della forma 1^ - L'incontro


Questa storia è solo finzione. Puro artificio letterario.


Parigi, inizio primavera 1926

In un giorno di sole, dopo che aveva smesso di piovere, capitò che fra le signore ingioiellate, i signorini in bombetta, le balie affaccendate, facesse capolino un giovane segaligno. Con la destra madida, a stringere un plico di pelle contro il bacino. Un biondino emozionato, con lo sguardo che punta dritto. Passo veloce e occhi cerulei.
Si fermò un attimo, parlottò col primo parigino che gli fosse a tiro e ne ottenne un’indicazione ad ampi gesti, come a dire: “Vai di là, gira di qua…”

Capitò che l’uomo, sulla trentina, dopo pochi passi si fermasse ancora, rimanendo qualche istante a osservare, come a scrutare, occhi a fessura, un’immagine imprecisata fra i tavolini dei bistrot.

Ottenute le indicazioni visive, si tirò giù la giacca come per meglio assestarla e quindi frenetico, ricominciò il passo.
Superò un tavolo, poi due, schivò una carampana dall’ampio cappello, dopo il sesto si fermò. Ritto come un pennacchio da milite. Uno sciagurato piccione gli aveva scaricato parte della sua semplice anima sulla spalla sinistra.
L’uomo slavato estrasse il fazzoletto e mentre si puliva con rapidi gesti intensi, rivolse il suo sguardo all’uomo seduto.

“Maestro – disse in un francese che sapeva più di spagnolo – permette una parola? Sono un suo ammiratore…”

Quel signore anziano dalla barba folta, con il naso infossato nelle sue carte, alzò lo sguardo distrattamente e quindi sospirò un “…Prego”. Più di cristiana generosità che d’interesse.

Era questi un uomo sulla sessantina, vestito elegantemente, con panciotto e lunette al naso. Corpulento quel tanto che basta a farlo dire in buona salute, con un tocco di estrosità nel suo vestito. Un fiore arancione all’occhiello, nel grigiore del sobrio gessato.
Un uomo che aveva movimenti lenti nel riporre le sue carte sul tavolo e nel portarsi alle labbra il bicchierino di cristallo fumè. Che aveva uno sguardo assorto anche quando ti guardava. Nella luce di occhi mobili e giovani. Come quelli di un bimbo.

Attese il discorso del giovane che ripose il fazzoletto, ormai colorato, nella tasca e si chinò leggermente inarcandosi. Prima di parlare:

“Arrivò dagli Stati Uniti, maestro. Ho usato quei pochi soldi che ho per questo viaggio in Europa. Credo che ognuno di noi, del nuovo mondo intendo dire, debba visitare la cara Europa almeno una volta nella vita. E così eccomi qui. Maestro, lei è mai stato in America?”

“No, mai” Replicò asciutto il vecchio elegante, senza tradire una piega di curiosità

“Certo, che stupido…Voi non avete bisogno di viaggiare. E' chi viaggia che viene da voi. Io, invece trovo che viaggiare sia bellissimo. Ho viaggiato in Italia, dal Tirreno all’Adriatico. Mi sono fermato in Polesine e poi sono ripartito. Io…”.

Il frastuono di una vettura che sfrecciò affumicando la via, spezzò il discorso dell’americano che già faticava a esprimersi in un quasi ridicolo miscuglio di spagnolo, francese e, ora, italiano.
Fu l’occasione per il Maestro.

“Lei mi scuserà, se non la faccio accomodare la mio tavolo, amico americano. Mi attende un pomeriggio molto lungo e di faccende periferiche alla mia attività…”

“Io non voglio….” Proruppe invadente, a bloccare con la voce, il gesto di alzarsi dell’anziano.

“Io non voglio rubarle tempo e infastidirla maestro. E’ solo che ho aspettato tanto, prima di poterla conoscere. Sperando che lei potesse dedicarmi qualche minuto. Sarebbe così gentile?”
“D’accordo, sarò così gentile” E fece il gesto dell’invito ad accomodarsi al suo tavolo. Poco convinto, quasi inquieto per tanta insistenza.

I tavoli dei caffè sulla rue erano affollati più che mai a quell’ora del pomeriggio. Il brusio, il vociare delle sciantose azzimmate, dei sedicenti galantuomini si alternavano ai discorsi degli artisti, allo sbattere d’ali dei piccioni, al litigare degli avventori. Nei primi giorni di primavera Parigi era questa. Una città accesa, una città bella dentro, che si rivoltava alle sue notti equivoche e si riappropriava della luce naturale, esplicitando il suo fermento.
Una città dove tutto era possibile.
Per un istante solo, lo pensò anche quell’uomo dall’aspetto insignificante, che era giunto da tanto, da così tanto lontano.

lunedì 2 febbraio 2009

Demenzialità Obiettive 3^ - Geni e contadini


Questa storia è solo una leggenda.

Una volta un giovane genio italiano, mentre cercava il domicilio di un professore tedesco di cui avrebbe dovuto diventare collaboratore, passò davanti a un orto, dove c'era un ometto irsuto e sporco di terra con un capellaccio in testa, ricurvo su una fila di zucche.

"Senta buon uomo -gli disse educato-, mi sa dire dove si trova l'abitazione del professor....?"

L'uomo lo guardò, restando prono sull'ortaggio, e con la mano ruvida gli indicò la dimora dal colore pastello che si trovava dall'altra parte della strada di fronte a quell'orto improvvisato.

"Grazie tante e buon lavoro" gli sorrise.

Andò alla porta della casa che gli era stata indicata e bussò
"Cercavo er profèssor, sono il suo nuovo collaboratore" Disse alla governante.
"Il professore al momento non c'è. E' impegnato nel suo orto, lo può trovare qui di fronte".

E' proprio vero: anche Einstein, se lo metti a zappare, più di un contadino non potrà sembrare.
Anche un genio può non essere in grado di riconoscerne un altro.
Occhio se vedete contadini in giro.