martedì 10 febbraio 2009

L'occasione della forma 3^ - Nessun conforto


Mentre l’anziano architetto schivava penosamente i passanti per allontanarsi, Howard giudicò quanta fretta avesse questi di distanziarsi da lui. Non ebbe il tempo di rammaricarsene. Fu un attimo e prese la decisione: improvvida quanto energica. E lo seguì. Con tutto il suo ardore, la sua brama di parlargli.
“Master Gaudì…Master Gaudì, la prego. Non se ne vada – fece, dopo essersi alzato -, ho bisogno solo di pochi minuti del suo tempo” Aggiunse che il suo passo frenetico già era sulle tracce di Antoni.
“Ci sono cose che non si possono… Sì voglio dire, non può. Lei non può trattarmi così. Se proprio non vuole parlare con me, perché le sto poco simpatico. Lo faccia almeno nell’interesse della sua arte. Delle sue certezze. Di quelle che in cui crede. Master Gaudì!”
Il tono della sua voce, seguiva dappresso la falcata del suo incedere. Avanzare di giovane leggero ed energico che lo aveva condotto alle spalle, poi al fianco di quell’architetto ombroso. Questi procedeva a capo chino, con la testa infossata nelle spalle. Senza degnargli uno sguardo, nemmeno quando Howard in una innaturale posa di movimento, aveva sincronizzato il suo passo a quello del “master” e gli parlava guardandolo dal lato sinistro. Interno al marciapiede.
Era diventata, malgrado i suoi sogni di scrittore mite e geniale, una vera e propria aggressione verbale. Uno stupro. Della tranquillità di un anziano. Della paciosa siesta di un uomo i cui pensieri valevano un nuovo modo di concepire, di estasiare forme e materie.
“Arte? – si fermò di colpo Antoni – Ammesso che lei sappia qualcosa dell’ARTE” Si fece aggressivo, mentre voltatosi fissò cosi suoi occhi profondi.
“Che cos’è l’ARTE? Guardi, odioso americano…Si guardì intorno! Le vede? Automobili!..Eppoi guardi in alto: li vede?? A-E-RE-O-PLA-NI! Un giorno un italiano coi baffi sì è svegliato e siccome sapeva scrivere: oplà! Ha detto a tutti che questi fumi di gas, tutta questa velocità, questa frenesia di muoversi, di partire, di arrivare, era arte. AR-TE! Non solo: è forma d’arte anche una pistola che spara, il rantolo di una mitraglia, la percussione di un cannone. E chissà cos’altro. E’ ARTE?. Lo chiedo a lei. E’ Arte?”
Dopo aver gesticolato a muso duro, Antoni Gaudì stette. In silenzio un attimo. Come chi si rende conto di aver esagerato e aspetta una ferita sanguinare dagli occhi di chi ha ascoltato. Incurante. Dei passanti che brulicano attorno, dello sferragliare dei tramvai. Delle suffragette incartapecorite.
Poi riprese deglutendo, recuperato il senno: “Se ne vada signor Howard. Se ne torni in America. Lei non ha bisogno di ispirazione. Non ha bisogno di un vecchio architetto. Immagino sappia scrivere. Si svegli una mattina anche lei. Scriva un manifesto e lo dia al mondo. Dica che è ARTE. Diventerà ARTE. Qualsiasi cosa ci abbia scritto”.
Poi si voltò e riprese lento il suo passo. Non aveva più bisogno di affrettarsi – ne era certo -, anche se un po’, ma solo un po’ si rammaricava. Non per lo scatto d’ira, per quel teatrale agitarsi in mezzo alla rue. Si rammaricava per se stesso. Gli anni, le notti isolato nel suo studio lo avevano reso permeabile alle intrusioni e, soprattutto, lo avevano limitato nel linguaggio. Non aveva più il dono dell’immediatezza, della sintesi, della sobrietà. Aveva perso troppe parole, fra i cantieri e i lucidi, i tecnigrafi e le solitudini. O forse non le aveva mai avute.
Lui era un uomo di tratteggio. Non di frasi.
Howard lo guardò stranito, neanche un po’ deluso. O offeso. Si limitò ad ascoltare, guardandolo arrabbiarsi.
Così, quando Antoni riprese il cammino, infossandosi ancora di più nel suo elegante pastrano, non si pose il problema, lo affiancò in silenzio per qualche passo, mentre Gaudì con un gesto impercettibile, si era allontanato dal muro, quasi a volergli ritagliare uno spazio alla sua sinistra.
Fu quello un segnale che Lovecraft seppe cogliere, visto che “ a disegnare quello spazio” era stato “l’archietto di Dio”.
“Maestro – riprese quasi sottovoce Howard- io non ho mai creduto che il mio scrivere fosse arte. Mai. Nemmeno un minuto. Io ho scritto e scrivo. Lo faccio senza pormi troppe domande.
Lo faccio perché mi va, perché mi allevia il disturbo di una vita non abbastanza felice. Non abbastanza dolorosa. Non ho pretese di scrivere manifesti, di allungare canoni sulla mia e sulla creatività di altri e… -si volle rassicurare con una breve pausa – mi scusi, ma non cerco ispirazione in lei”.
“Lei si scusa?” Sussurrò l’anziano, interdetto.
“Forse…”
“No, lei ha detto che si scusa”
“Sì”
“Bene. Credo che sia una buona premessa. Non il suo scusarsi. Ma il fatto che non cerchi ispirazione nella mia persona.
Troppe persone vengono da me, cercando conforto alle loro teorie ARTISTICHE. Mi avvicinano. Proprio come ha fatto lei. Con l’invadenza non riconoscibile nei galantuomini. Chiedono, ma poi parlano solo loro. Mi adulano..Casà Batlò di qua…Casa Milà…Guell.. In realtà cercano solo conforto. E speranza”.
“Io no”
“Non so…Non m’importa. Io non ho certezze, ne speranze per nessuno. La mia creatività non può essere di conforto a nessuno. Non è egoismo. E’ un dato di fatto”
“Io non cerco ispirazione, ne conforto, Maestro Gaudì. Voglio solo confrontarmi con lei e chiedo scusa da subito per la mia supponenza”.

Antoni nascose il suo scettico stupore cercando d’infilzare con la punta ramata dell’ombrello una carta sul marciapiede. Non voltandosi un istante verso l’ interlocutore, cominciò a meditare di concedere un opportunità a quell’americano malvestito. Che sarebbe durata poco. Lo spazio di una passeggiata fino all’albergo.
Era già il secondo spazio che l’architetto catalano disegnava per quello strano uomo.
E non erano passati che pochi minuti da quando si erano incrociati.