mercoledì 18 febbraio 2009

L'occasione della forma 5^ - I cani di Antoni


A ormai più di 70 anni, Antoni Gaudì si conosceva bene. Conosceva le sue abitudini, i suoi grandi pregi, ai quali pensava sempre meno, i suoi piccoli difetti coi quali si riconosceva indulgente. In ossequio a quella porta della creatività che era più alle abitudini disdicevoli che non al comune praticare, agire, che si apriva. Così entrando nel suo elegante miniappartamento parigino non ebbe bisogno di giustificarsi con se stesso. Quando ragionò sul perché di quella perdita di tempo. Non fece altro che spogliatosi del pastrano, sedersi, e appoggiata la cartelletta del signor Howard sul tavolino di radica, sorridere delle sue debolezze.
Si ricordò con la velocità dei sogni notturni, di una sera, l’ennesima, passata da giovane architetto sulle ramblas. Di come la sua creatività ne fosse stata influenzata da lì ai decenni a seguire.
Gli tornò in mente il suo sconcerto, la sua rabbia mista a orgoglio. In un alternarsi ritmico e meccanico, come di pistoni in un motore. “Motore…L’italiano coi baffetti” sussurrò. E ne scacciò via il pensiero.

Quella sera di quasi cinquant’anni prima, con la cerveza in mano e i suoi disegni sul tavolo, aveva capito quanto è brutto non essere creduti, quando il proprio cuore è sincero.
Quanto è orribile essere plagiati dal destino, di meno: beffati dalle coincidenze.
Era il 1877. Non era ancora diplomato alla Scuola Superiore di Architettura di Barcellona, ma già collaborava coi i più grandi architetti del tempo.

“Caro Gaudì - quell’ometto irsuto lo aveva guardato, cercando goffamente di simulare ilarità – Tu stai scherzando vero? Beh…E’ uno scherzo che ti è costato un po’ di tempo, immagino”
Lluís Domènech I Montaner non era un genio assoluto. Era un leader, un trascinatore. A soli 2 anni più di Antoni era già un cattedratico. Un uomo che tracciava un solco, che altri avrebbero abbellito, trasformato in strada. Era una delle prime sere di frequentazione fra i due, in mezzo a quel coacervo di pittori, scultori, architetti e “muse” ispiratrici. In quella Barcellona periferica in tutto. Tranne che nella creazione. Nelle arti.
“Da te ci aspettiamo grandi cose – aggiunse Montaner – Forse piuttosto che nella goliardia, il tuo impegno andrebbe profuso verso lo studio. La Catalogna ha bisogno di bravi architetti…Possibilmente diplomati”

Il giovane Gaudì aveva balbettato qualche parola, come a non capire. Poi aveva cercato con lo sguardo qualche alleanza fra i suoi compagni di serata. Fra i colori della rambla, nel fresco riconquistato di quella notte azulgrana.
Nessuno, distratto dal fluire di cerveza e “franco”, aveva prestato il braccio al suo appoggio.

“Prego Montaner?” Aveva infine concretizzato interdetto prima che il silenzio diventasse imbarazzante.
“Questo. Antoni. Questo edificio…E’ la casa nella calle de Los Fuentes al Barrio Gotico” Rilanciò sorridente, con una punta di sospetto Lluis.
“Forse non era uno scherzo?” Fece, poi, impercettibilmente serio.
“Se non fossimo tutti colleghi e amici, Antoni, la prenderei come un’offesa…” E si era asciugato il baffo fluente con il tovagliolo bianco, senza distogliere lo sguardo da Gaudì.
Una parola, una sola parola sbagliata e l’immediato futuro di talento emergente sarebbe stato compromesso. Almeno nella sua Barcellona.
“Uno scherzo è uno scherzo Lluis…Ti ringrazio comunque di avermi promosso tuo collega” Aveva chiuso sorridendo Antoni mentre, con lenta noncuranza, riavvolgeva il suo lucido sul tavolo.

Il giorno dopo, a mezzogiorno in punto, quando il sole era a picco sulla Casa de Los Fuentes e le ombre non potevano distorcerne la visione Antoni Gaudì era rimasto fermo a una decina di metri dal suo portone. Ed era rimasto lì, a studiarne gli slanci, le ricadute, il gioco di spinte, la distribuzione delle forme solo impercettibilmente arrotondante, l’alternarsi dei colori.
Attese che il sole virasse su quel punto di riferimento immaginario eppure concreto, attese in piedi che le prime ombre cominciassero ad allungarsi, mentre la sua camicia cominciava a diventare bagnata e sentiva il sudore colargli sulla schiena nervosa.
Per ogni finestra un calcolo mentale, per ogni arcata un’ideale ritratteggio. Per ogni guglia un riassemblaggio di pietra, marmo e ferro. Con i rilievi cromatici che esplodevano nella sua testa e si ricomponevano ricadendo al loro posto. La casa implodeva rimpicciolendosi e poi si allungava, in un ballo di forme interiori che lo portava ogni volta sull’orlo della pazzia.
La pazzia temporanea di un architetto che diventava più uomini. In grado di girare attorno a quell’edificio, di levitare, di osservare; scomponendosi in più menti ardite, ricomponendosi a piacere nella testa di Antoni. Come un branco di ligi cani da caccia che riportano la preda al padrone.

Tre ore dopo si mosse, abbassando lo sguardo e dopo un breve giramento di testa s’infilò nella prima taverna.

“Questa casa l’ho pensata anche io – si disse convulso - mentre spalancava il suo lucido macchiato di cerveza sul tavolo. Io qui non ci sono mai stato, questa casa non l’ho mai vista. Come è potuta sfuggirmi?
Che cos’è questo allora? – si ripeteva urlando nella mente – Questo mostro che ho creato in una settimana di lavoro? Che cosa ho copiato senza copiare?”

Osservò obnubilato il preciso tratteggio su quel lucido e gli schizzi di matita che conosceva a memoria per averci lavorato decine di ore.
Gli stessi tratti, gli stessi slanci, le stesse volontà di variegata leggerezza, unite all’accondiscendente desiderio di potenza, di solidità. Anche un bambino avrebbe detto che era una copia della casa fuori, di fronte a quella taverna da pochi spiccioli.
Fece d’un colpo, con le due mani, un brusco groviglio di cartaccia in uno scatto di nevrotica ira.

Per lui quello sarebbe per sempre rimasto il giorno “De Los Fuentes”.
Come un segreto da custodire con se stesso. Un enigma, spartiacque della propria creatività.
L’offesa che il caso aveva recato al suo lavoro, gli sarebbe rimasta impressa per sempre. Sarebbe anche stata il segreto della suo genio. Come una scudisciata decisiva al suo emergere.
Si promise, mentre le sue mani accartocciavano lucidi e fogli, che la sua visione si sarebbe spinta a un punto tale da non correre più quel rischio. Si ripeté che la sua mente avrebbe concepito forme, misure, dimensioni tanto ardite che nessuno, nulla, avrebbe potuto ridurlo come in quel momento.

“Se la creatività ha dei recinti, io ne aprirò i cancelli. Nessuna dimensione, nessun canone mi potrà fermare. Niente che io non voglia.
Prego Dio! Ora, qui, che me ne dia la forza. Prego Dio che mi accompagni senza farmi impazzire. Ne risponderò solo a lui”.
Si disse che la prima cosa da fare era dimenticare quella strada, dimenticare quella casa, impedire alla sua curiosità di sapere “chi” e “quando”.

Infossato nella sua poltrona parigina, cinquant’anni dopo, constatò una volta di più che fu la vanagloria, l’orgoglio a farlo diventare il “maestro” Antoni Gaudì. Quello che chiamano “l’architetto di Dio”.
Ecco perché, sereno, inforcò le sue lunette e imbracciò quella cartella di pelle scura.