venerdì 20 febbraio 2009

L'occasione della forma 6^ - Il pesce di Howard


Howard non amava la gente. Complessivamente intesa. Considerava la massa come una deformazione dell’unicità. Una sorta di grande catino, dove venivano appiattite volontà, istinti, attitudini e quant’altro. Non amava mischiarvisi, infilarsi all’interno, respirare la stessa aria, inspirane gli effluvi.
Pensava, a ragione, di esserne condizionato.
La sera dopo a Le Havre prese il suo posto in terza classe su una branda disconnessa che provvide a riassestare con delle tacche improvvisate.
Il suo misero bagaglio, una valigia, un borsone, una tracolla appoggiati per la faccia più spaziosa, formarono, accanto, un sorta di scrittoio
“Dove – pensò - potrò trovare appoggio per scrivere”.
I suoi 32 giorni di Europa lo avevano portato in Italia, quindi in Francia.
Nel Polesine aveva soggiornato per qualche giorno, dopo Genova, Firenze e Venezia. Aveva attinto dalle leggende locali, dai racconti, spesso male interpretati, dei pescatori di anguille; aveva tratto ispirazione per futuri racconti. Si era lasciato cullare da quel fiume pacioso e infido, aveva desiderato soggiornare in quelle case-baracche che facevano capolino dalle acque su quelle sponde, sempre mutevoli, di quel delta informe. Sempre disuguale a se stesso.
Aveva immaginato creature tentacolari emergere dalle acque, figure indefinite prendere forma dal fango, mondi sommersi nel torbido profondo. Popolazioni di uomini-pesce dalla crudeltà infinita.
Da un pescatore si era fatto raccontare di una nuova creatura che cominciava a popolare quelle acque. Un essere che definirlo “pesce” appariva riduttivo.
Gli abitanti locali, quelli più impermeabili alle leggende, lo descrivevano come uno squalo d’acqua dolce. Un grosso predatore dalle fauci appiattite che cominciava a rappresentare una minaccia vera. Per la fauna ittica del posto, ma anche per gli uomini, azzardavano i più suggestionati. Si diceva che venisse dai fiumi del nord Europa e che, nei secoli, le sue uova erano passate, come in una transumanza epocale, di ruscello in ruscello, di stagno in stagno, di torrente in torrente. Dalle steppe dei fiumi siberiani, attraverso il Danubio , fin giù. Su quel Po nebbioso.
Si diceva, lo dicevano anche i pescatori meno fantasiosi, che alcuni potevano inghiottire animali di piccola e media taglia. Il pescatore sdentato che aveva cercato di spiegargli ad ampi gesti, pareva aver visto di persona anatre intere sparire nel ribollire melmoso del fiume.
Più avanti nel suo lentissimo viaggio, aveva costatato come la leggenda avesse preso il posto della cronaca, come un fatto fosse alla fine deformato dalla superstizione, dalle paure irrazionali di un luogo fuori dal mondo. Dove nebbie d’inverno e afa malsana d’estate contribuivano a deformare tutto e renderlo unico nella sua concreta irrazionalità.
Così quello “squalo d’acqua dolce”, mano mano che ci si avvicinava alla foce del fiume, diventava nei racconti sempre più grande, sempre più agile e pericoloso per l’uomo. Ed egli stesso sempre più uomo, assumendo quei tratti antropomorfi che avevano finito col suggestionare la fantasia già estrema di Howard che gli aveva attribuito il nome gutturale e incomprensibile di qualcosa che non c’è. Creatura metà uomo e metà pesce con tentacoli errabondi e una pinna dorsale. In grado di mutare il suo avanzare da passo umano, a strisciare di serpente, a incedere basculante di piovra sulla terraferma.
In vista del mare, infine, Howard si era imbattuto in un gruppo di pescatori adunati attorno a una rete. All’interno si dibatteva energico un grosso pesce di più di due metri di lunghezza, di color grigio con una grossa pinna ventrale e lunghe vibrisse carnose attorno alla bocca. Sventrato con macabra soddisfazione degli astanti, il grosso esemplare rivelò all’interno i resti di altri pesci, di anguille, pietre, alghe e un becco ossuto di inequivocabile origine volatile.
Era quello il suo “shoggoth”?
Quella sera si era trattenuto con quei pescatori felici, aveva bevuto del loro vino rosso pastoso, si era seduto alla loro tavola affumicata, aveva frenato il freddo pungente con quel liquore neutro che bevono gli italiani del nord-est. Si era nutrito della sua creatura di fantasia anche, immersa in una broda vegetale dal discreto sapore. Aveva sorriso con la sua bocca sottile e il suo mento sporgente e si era abbandonato al caldo ed ospitale tepore di una branda vicino al fuoco. Non prima di essersi ritto in piedi, stupendo i suoi compagni di banchetto, e aver biascicato in un incomprensibile inglese “Degno è chi si nutre della propria immaginazione”.
La risata generale fu l’ultima cosa che sentì quella sera.

La mattina dopo era ripartito per Bologna e da lì aveva preso la volta di Torino. Un lungo viaggio in treno lo avrebbe atteso fino alla Parigi del congresso degli architetti.

Che magnifico viaggio era stato quello. Lo constatò una volta di più aprendo la sua agenda, sulla quale erano raccolte tutte le ispirazioni, scarabocchiate inequivocabilmente, pagina per pagina, luogo per luogo. Dai carruggi maleodoranti di Genova che gli sembrava avesse esportato fino a New York quell’idea di multirazzialità che lo deprimeva e lo esaltava al contempo e dove in pochi giorni aveva fatto sua la miasmosa visione di caverne inesplorate ed immense. Di popolazioni riottose alla luce del sole, di sterminate fila di esseri metà uomo e metà medusa, acquattate nel buio di quei meandri e pronte a fagocitare il nostro mondo conosciuto, i cui deformi adepti umanoidi si aggiravano indisturbati, in vista della prossima aggressione dei loro padroni.
Nella Firenze contemporanea s’era fermato in contemplazione solo pochi giorni. Come in estasi Davanti alle sue bellezze rinascimentali. Aveva sostato, seduto sulla scalinata del duomo, addentando pane caldo, osservando lo sciamare della gente incredibilmente abituata a un tale spettacolo. Era salito sul campanile di Giotto, aveva vacillato per il freddo pungente, per la disorientante bellezza di quella concezione di spazio, di urbanistica. Nel sublime slancio di solidità estetica che si proiettava al di sotto. Di quel bello classico, si era detto profano, avrebbe nutrito i suoi racconti futuri. Come riequilibrare, almeno in parte, il vaneggiare onirico della sua penna, il delirare abituale della sua creazione letteraria.
“Giacché l’orrore – scrisse in calce alle pagine fiorentine del suo diario di viaggio – è anche del bello che si nutre, facendo pasto del suo stravolgimento”.
Di Venezia respirò la paura, nell’incoscienza dei turisti, nell’omertà degli abitanti. Si disse che un tale prodigio, non poteva rimanere inspiegato ai loro occhi. Che la verità sulla Serenissima era in quell’avanzare di acque melmose, fra la bellezza disarmante di quelle case sospese, la tremebonda solidità di quei ponti e quelle barche dalle forme animali. Immaginò un mondo aggredito dal liquame del buio, reso schiavo, irretito come da tela di ragno nel viluppo di una orrenda civiltà emersa. “Venezia – aggiunse a piè pagina – è la bellezza del mio mondo futuro”.
Ascoltando i racconti dei barcaioli, aveva appreso del Polesine e dei suoi misteri. Là si era diretto, come a cercare una prima origine alla sua vaneggiante ispirazione.

Una volta riletti i suoi appunti sulla nave che lo riportava a casa, riservò qualche pagina bianca per scrivere dell’incontro con Antoni Gaudì. Cercò di concretizzare i suoi desideri di uomo frustrato. Immaginò l’anziano architetto cestinare i suoi scritti con repulsione, lo pensò allontanarsi da lui definitivamente una volta inghiottito dalle porte dell’albergo, fu come vederlo cassare in un solo gesto i suoi sogni di scrittore. Lo pensò anche leggere attentamente, stupirsi, riconoscere, ammettere. In cento modi e con cento gesti diversi. Fu un alternarsi prostrante nell’ozio di quella traversata.

“Che bella cosa sarebbe… – sussurrò una sera al gelo del ponte di terza classe – Che bella cosa sarebbe se il maestro Gaudì potesse credermi”.
Infreddolito, si strinse fra le braccia e non osò davvero sperare oltre.