martedì 24 febbraio 2009

L'occasione della forma 7^ - Casa Milà



Antoni si disse di pensare il meno possibile. Si convinse di lasciarsi trasportare dalle parole. Belle o brutte che potessero essere, bene o male articolate in quelle righe. Nelle distribuzione di quella calligrafia ordinata e chiarissima. Da contabile messicano.
Pensò, spalancata la cartella di Howard, che avrebbe dovuto leggere una prima volta e poi, eventualmente, una seconda, qualora ne fosse valsa la pena. Nel caso in cui quegli scritti lo avessero convinto. Cerco di scacciare lo scetticismo radicale, dette un’oliata al meccanismo a scatto che regolava quella voglia di voler credere e poi attaccò a leggere. Non prima di aver appoggiato sul tavolino il suo orologio da polso. Ben in vista, come di chi ha poco tempo da perdere.

Lasciò cadere i suoi occhi nel silenzio assoluto. La sua iride indefinita cominciò a tallonare le parole, nero su bianco. Da destra sinistra, da destra a sinistra. Sempre più velocemente, sempre più agganciate a quel periodare asciutto, a qui termini così inusuali, a quel raccontare obsoleto.
La descrizione partiva dalla morbidezza “affiascata” della facciata principale, come di un edificio un tempo ritto e slanciato che, per effetto di indefinibili prolassi, ricadeva percettibilmente su se stesso. Come di essere che s’insacca per via di una altissima caduta. Come di pelle animale che penzola e si ripiega a causa di imprevisti svuotamenti.
Trovò, fra le linee, fra le parole, una capacità di descrivere inusuale sin dalle prime frasi. Un dar voce ai suoi pensieri che ne stimolò la curiosità, mano mano che si saliva nel descriverne l’esterno. Un inno alla curva – lui lo aveva voluto così . “Render mobile e cangiante la pietra porosa. Far del granito un mare mutevole nel centro di Barcellona” era stato il suo obiettivo – un obiettivo che riprendeva forma, lentamente, nel descrivere di Howard. Dalla foggia delle balconate, alle balaustre, ai mosaici, tutto secondo una corrispondenza quasi pedissequa.
“Questo tizio ha copiato” si sussurrò in catalano stretto, quasi a volersi rassicurare.
“Ma ha grande talento” Aggiunse nella mente inquieta.
Poi proseguì sempre meno tranquillo: le finestre oblunghe, i battenti deformi, le ceramiche, i mosaici. Il periodare dello scrittore americano, sebbene greve in certi punti, appariva agile a lunghi tratti. Come di macchina che si accende sobbalzando e poi parte con un canto stabile, salvo poi riprender fiato con un tossire profondo.
Una descrizione minuziosa dei cortili interni. Ovali, come Antoni li aveva voluti, a simbolo del mondo terreno e trascendente che si sovrappongono e si scambiano.
Alle frasi di Lovecraft, mentre il maestro leggeva, tutt’intorno era il vuoto pneumatico della creatività. La materia degli arredi nella stanza d’albergo che colava e riprendeva forma, si allungava, si dilatava fondendosi in una continua monade di colori che ondeggiavano prima di riallocare la figura dell’architetto seduto. In un nuovo punto di casa Milà, strumentale al racconto di Howard.
Così, leggendo, Antoni sguinzagliò i suoi cani gemelli che corsero all’impazzata intorno a quell’edificio, si bloccarono, segugi, di fronte alla sua facciata e controllarono le parole dello scrittore, comparandole alla reale misura. Osservarono, contarono, calcolarono e ritornarono indietro, riacquistando le sembianze del maestro prima di traslarvisi dentro.
Ora Antoni dall’esterno era entrato nella casa di Howard, e vi si muoveva come nel suo studio catalano. Leggeva e figurava, movendosi nella sua mente, di attraversane il portone di salirne la bizzarra scalinata circolare e di entrare, passo a passo, in ogni stanza.
Il racconto di Howard si faceva via via più asciutto, sempre meno orrorifico, sempre più reale. O almeno così sembrava ad Antoni, attento alle sfumature cromatiche, a quell’incassellare verbale di tasselli in mosaici variopinti, sempre più i suoi mosaici, se non perfettamente nella forma, certamente in quell’idea di bellezza che, si ricordava perfettamente, aveva fatta sua mentre li concepiva ormai più di vent’anni prima.
Sfrondato da riferimenti onirici, desfogliato dagli orpelli narrativi strumentali a una vicenda immaginaria che non gli importava, quella casa descritta dallo scrittore americano era la sua. Certamente la sua.
Se lo disse mentre, tirando un poderoso sospiro, si tolse le lunette abbarbicate alla punta del naso e con le dita si massaggiò gli occhi come a prender pausa.
Quattro pagine fitte di descrizione. Gliene mancava una da leggere.
“12 dollari…Il messicano s’è fatto pagare, d’altra parte con tre dita in meno..Per quanto, ha fatto un buon lavoro”.
Scacciò via scettico il pensiero che davvero quella articolata descrizione potesse essere il frutto di una incredibile coincidenza. Non pensò, con malizia, che Howard potesse essere un millantatore in cerca di artistiche benedizioni, nemmanco un nuovo adepto alla ricerca di un vate. Pensò semplicemente che uno scherzo strano avesse preso l’americano un giorno e lo avesse convinto di aver concepito una casa che in realtà aveva già visto. Si domandò se Howard fosse un frequentatore di cinematografi, cosa leggesse abitualmente, di quali personaggi potesse essere composto il suo microcosmo di scrittore onirico di talento. E quale fosse la preparazione di queste persone. Si chiese se bevesse abitualmente, o se facesse uso di morfina per alleviare…
“…Alleviare il disturbo di una vita non abbastanza felice. Non abbastanza dolorosa”
Prima che questo pensiero potesse scivolare verso la compassione Antoni sentì dentro di sé come il pizzicare di una voce profonda. Un riverbero monocromatico che si faceva luce piena.
Si rivide nella calle De Los Fuentes cinquant’anni prima, con il suo viso giovane puntato verso l’alto, la sua fronte sudata, il suo sguardo fisso. Si fece tenerezza. Ancora una volta.

Riappuntò i suoi occhiali al naso e riprese la lettura.
Sapeva come di una trama scontata che il viaggio descrittivo di Howard lo avrebbe portato sui tetti di quella casa. Sentiva che, in qualche modo, là si sarebbe deciso.
Lesse veloce, con la velocità che gli anziani non conoscono, ma solo le menti lucide. Lasciò che la velocità imprimesse nella sua mente solo gli indizi in rilievo, quelli che potessero emergere alla sua ricerca, in una tela per il resto, e solo per lui, scontata.
Una lettura in negativo come di fotografia che potesse rivelare impensabili dinamiche creative. Altre coincidenze, infinitesimali, che non potessero definirsi tali.
Poi ebbe un sobbalzo impercettibile.
Chiuse la cartella di pelle scura con uno colpo secco, infine. Strinse le mani come in preghiera, portandosi il pollice a massaggiare il labbro.
Quel giorno non avrebbe letto altro.

“Esteban! – fece, alzatosi di scatto e affacciatosi al corridoio – Esteban!”
Dalla porta affianco fece la comparsa un giovane impomatato in vestaglia.
“Don Gaudì ha bisogno?”
“Sì che ho bisogno. Prendi questo foglio. Sotto ci sono scritti degli indirizzi. Uno deve essere di un albergo o di un ostello qui, a Parigi. Voglio che vai di corsa là e chiedi del signor…Del signor…Insomma trovi tutto scritto su questo foglio. Gli darai il biglietto che ti scrivo…Aspetta”
Antoni rientrò nella sua stanza e ne uscì dopo pochi secondi con una piccola busta in mano.
“Ecco. Dagli questo, poi aspetta. Aspetta di accompagnare da me questa persona. E’ un americano biondo…Vai! Di corsa!”
Dopo pochi minuti sentì bussare alla porta
“Don Gaudì… - fece il giovane assistente imbarazzato– Don Gaudì lei cerca questo signor Lovecraft?”
“Certo loco…Sei ancora qui?”
“Don Gaudì ma…Come faccio a trovarlo? L’indirizzo. Non c’è”
“Come non c’è?” Chiese Gaudì innervosito. Esteban Labruna non lo aveva mai visto così in due anni.
“Non c’è Don Gaudì…Guardi anche lei. C’è solo quello in america”
Antoni riprese l’ultima delle quattro pagine che aveva letto e constatò che il suo assistente aveva ragione. Vergata a mano libera c’era solo la firma di Howard e l’indicazione del suo indirizzo di Providence. Rhode Island.
“Grazie “ Fece al giovane, recuperata la calma.
“Ci vediamo fra un’ora nella hall...Per il convegno. Tu mi accompagnerai”
Rientrato in camera, ripensò a quell’ultima pagina. Un dettaglio in quel periodare. Una frase, una descrizione aveva girato il senso di quel bizzarro pomeriggio.

Antoni non si scoprì inquieto per quella rivelazione, anzi. Si rincontrò lucido, freddo.
Sapeva che cos’era. Era il suo senno che lo richiamava all’ordine. Era, anche se lui non avrebbe mai osato riconoscerlo, il segreto del suo genio. L’arma vincente della sua mente superiore.
La stessa che lo portava a risolvere un problema di carichi e spinte in strutture dalla forma bizzarra, splendidamente coordinata, facendo dei calcoli elementari, attraverso la via matematica più immediata.

Era quella: la capacità di fare pensieri semplici, quando le cose si complicavano.

Il pensiero semplice che fece Antoni quel tardo pomeriggio fu che aveva bisogno di parlare di nuovo con Howard.