venerdì 27 febbraio 2009

L'occasione della forma 8^ - Anima di piccione


“Niente vettura Esteban… Ti va di fare quattro passi fino all’albergo?”
“Come vuole Don Gaudì…Qualche chilometro a piedi non ci farà male”. Il giovane assistente di Antoni si strinse nel pastrano nero e, perplesso, pensò che il clima non era ancora così felice. Tanto da permettersi passeggiate a notte fonda.
Ma dopo essere stati seduti a parlare tante ore, rimettersi in movimento prima di andare a dormire era cosa gradita.
Constatò attraversando le vie di Montmartre quante occasioni potesse offrire quella Parigi a un giovane come lui. Ambizioso di successo, ma soprattutto di piaceri.
Si sentì come un bambino che passa davanti alle giostre, mentre il suo papà, suo nonno, lo trascina via per la mano…

Antoni, dopo un po’, interruppe il silenzio.
“Domani mattina – fece roteare la sua mano destra – dobbiamo fare una cosa. E tu devi aiutarmi”
“Certo”
Al giovane Labruna questo livello di intimità cominciava a non dispiacere. Fino ad allora aveva visto Don Gaudì come una sorta di monumento vivente. Un uomo che alla somma arte, al carisma dei suoi successi e a quello naturale della sua età, aggiungeva la silenziosità delle persone che “possono” molto. Sotto molti punti di vista.
In quel periodo di tempo “a bottega” da lui, quello che aveva imparato di comprensibile, lo doveva solo al suo spirito di osservazione, spesso peraltro latente.
Antoni Gaudì non gli aveva insegnato molto, a parole. Aveva lasciato che lo si osservasse.
Esteban si rendeva conto di essere un privilegiato per questo, ma troppe volte se lo dimenticava nelle pieghe ombrose del carattere di quell’anziano.
“Secondo te da quale stazione partono i treni per la costa atlantica?”
“Io credo… Non ne sono sicuro, ma immagino che la Gare du Nord sia quella più importante Don Gaudì”
“Bene, facciamo finta che sia quella. Dobbiamo essere là per le sette di domani mattina…”
“E poi?”
“E poi andiamo sul binario dei treni che partono per Le Havre… C’è una persona che dobbiamo trovare”.
“Il signore della lettera?…L’americano”
“Sì, daremo qualche spicciolo al capotreno e ce lo faremo trovare…”
“Va bene Don Gaudì. Ce la faremo… Questo signor Howard. E’ un architetto?”

Sulla rue sfrecciò una lunga autovettura scoperta. Rallentando nei pressi del marciapiede una giovane si alzò dal sedile posteriore e, sorretta dai suoi due compagni di viaggio, schiamazzò “Allez mes amours! Embrassez Paris...Voilà le primtemps! Allez!...Allez!”
E, con la macchina che riprendeva velocità, si era aperta il vestito all’altezza del seno prosperoso, esponendolo ai due architetti.
Il suo sorriso ubriaco, ma non solo quello, contagiò Esteban che rispose al saluto da giovane impomatato e impulsivo quale era
“Je te baiserai mon amour!...Toi et tes souers!” E si era sbracciato nel saluto.

“Esteban…Tu sai cosa vuol dire “baiser” vero?”
“Baciare. Don Gaudì”
“Non soltanto” Fece una pausa come di biasimo. Poi aggiunse:
“Il signor Howard non è un architetto, per come la pensiamo noi. Ma sono cose che non ti possono interessare”
Esteban si scrollò leggermente nel pastrano e continuò il passo a fianco di Antoni Gaudì. Giudicò di essere circa a metà strada dall’albergo. Gli sembrò davvero un lungo percorso.

La mattina dopo, alle 7 in punto, Gaudì e il suo adepto erano al binario 21 della Gare du Nord. Diedero qualche franco al capotreno che, non solo controllò le carrozze una a una, ma tardò la partenza di almeno cinque minuti, prima di appoggiarsi alla balaustra dell’ultimo vagone e allargare le braccia sconsolato.
Antoni ed Esteban si erano fermati in mezzo al fluire dei passeggeri sulla banchina, alla ricerca di un viso somigliante, della faccia giusta. Ma, per quanto di biondini dal mento sporgente ne fossero passati, Howard Lovecraft non c’era. E non ci sarebbe stato per tutta la mattina, nonostante le attenzioni dei due, che avevano atteso, insieme ai rispettivi capotreni, la partenza del treno delle 7 e 17, delle 9 e 24 e di altri due convogli. Compreso l’ultimo di quella mattina alle 12 e 26.
Tutti i treni che giunsero a Le Havre nel pomeriggio, alla fine, ebbero dai cinque ai venticinque minuti di ritardo. Oltre a quello fisiologico.
Alla sede della SNCF di Le Havre spiegarono questa pioggia di ritardi con l’incompetenza della sede parigina e ci fu uno scambio di missive infuocate nella settimana a seguire.

Howard, giudicando che avrebbe potuto dormire comodamente in treno, aveva invece abbandonato l’ostello con una sera d’anticipo, per risparmiare pochi franchi e poterli impegnare nell’acquisto di generi di conforto per il viaggio.
Carta per le sue ispirazioni improvvise che non potevano essere soddisfatte dal suo debordante taccuino, qualche rivista inglese e francese per cercare di migliorarsi nella lingua e, soprattutto, un lavaggio a secco per la sua giacchetta che consegnò alla lavanderia del transatlantico, non appena ebbe preso possesso della branda in terza classe.
Se si fosse presentato a New York dalla sua ormai ex moglie in quello stato, le avrebbe dato una soddisfazione troppo grande in vista della separazione.
“Se quello sfacciato piccione – si disse, mentre pagava i 12 franchi di tintoria- non mi avesse fatto la cacca addosso, forse avrei potuto passare una notte in più a Parigi. Tornarci sarà un’impresa”.

Sulla via del ritorno dalla “Gare du Nord”, Antoni fece fermare la vettura messagli a disposizione dall’organizzazione del convegno davanti ad una banca. Diede a Esteban tutti i franchi e i pesos che aveva in tasca e gli disse: “Giovane, entra lì…Con questi, fatti dare tutti i dollari che puoi”.
Esteban tornò, perplesso, dopo una decina di minuti con 72 dollari e 23 centesimi e li mise in mano al suo maestro, insieme alla ricevuta. Antoni Gaudì l’infilò in tasca e, una volta sceso davanti all’albergo, diede appuntamento al suo assistente nella propria stanza.
“Domani mattina –gli disse quel pomeriggio- appena apre la posta qui di fronte, effettuerai un vaglia indirizzato al signor Howard…
“Al signor Lovecraft sì..”
“Sì…All’americano. L’indirizzo sai dove prenderlo. Userai tutti i dollari che ti hanno cambiato oggi” E mise sul tavolo il malloppo.
“Poi imbucherai una lettera che avrò provveduto a farti trovare sotto la porta. Scegli l’affrancatura più costosa, quella per il recapito più veloce. Domani, quando ti sveglierai, la lettera sarà lì.
Bada loco Esteban…” E lascio cadere la minaccia bonaria.

Esteban Labruna passò una notte inquieta e il mattino dopo eseguì alla lettera le indicazioni del suo maestro.

Anche per Antoni non fu una notte banale. In vestaglia, ritto davanti alla sua finestra più ampia, stette per ore in contemplazione di quelle strade parigine, si perse coi suoi pensieri nel brulicare della gente, fra le luci deformanti dei lampioni che si riflettevano nei suoi occhi. Fissi, come se avessero smesso di cercare. Fu poco dopo aver riconosciuto, dall’alto, l’azzimato Esteban che rientrava giocondo in albergo, che pensò finalmente di scrivere.
Si sedette al tavolino e inforcò le lunette, sforzandosi di essere semplice nel suo scrivere spagnolo.

Gentile signor Howard,
valga questa Mia a parziale scusa del mio atteggiamento nei suoi confronti ieri mattina.
Le persone pensano di me che, solo per il fatto di essere un architetto famoso, debba anche essere un ottimo maestro di cerimonie. Non è così. Se ne sarà accorto. Spero mi scuserà.
Così come mi scuserà per quel suo cognome che ancora non ho imparato a pronunciare, ne tantomeno a leggere. Io, come disse lei ieri, sono un uomo di tratteggio, di chine e cantieri; lei è un uomo di penna. Ho imparato in queste ultime ore ad apprezzare la qualità della sua arte. Ho imparato quanto la scrittura possa essere disegno, concezione di spazio, misura delle dimensioni che ci circondano. Ho riconosciuto quanto l’abbia (ingiustamente) sottovalutata. Di più: ignobilmente derisa.
Ho letto attentamente le sue pagine e sento una certezza pervadermi. Una certezza che nasce non dalle uguaglianze fra le nostre case e nemmanco dalle filosofie con cui (così diversamente) le giustifichiamo. Io nella dura pietra, lei nella fragile carta. Io nel mio canto terreno rivolto a Dio, lei nel suo sussurro onirico volto all’oscuro.
La mia certezza nasce da una disuguaglianza o meglio, signor Howard, dal nominare diverso ciò che nella realtà è uguale. Ed è particolare curioso se penso che dai tetti di Milà nasca questa convinzione.
Lei ha chiamato “gufi” i comignoli della sua casa, dandone immagine e forma perfetta nella descrizione, del tutto uguale alla realtà sui tetti di Milà. Vent’anni orsono, quando sentii l’esigenza di disegnare quei comignoli li chiamai anch’io così.
Nella mia testa, da allora, restarono i “Gufi di Milà”. Ed è un piccolo segreto di architetto catalano che non ho mai rivelato a nessuno.
Non importa come in questi venti anni li abbiano definiti: paladini, guardiani, armigeri, cavalieri. Importa, ora, che per me siano e restino i “Gufi di Milà”. E’ un segreto. Un segreto per tutti, ma non per lei che ha reso in prosa ciò che io ho pensato in pietra e ferro. Ed ha nomato ciò che io ho custodito.
E’ questo che mi ha convinto, gentile signor Howard. Ed è per questo che le ho inviato del denaro. Per far sì che lei possa agevolmente effettuare altre traduzioni dei suoi scritti.
Quando sarà pronto, non esiti a contattarmi. Sarò lieto, anzi grato a lei, se vorrà essere ospite nella mia dimora di Barcellona e renderla partecipe dei miei lavori.
Mi comunichi quando deciderà di venire. Provvederò a prenotarle il viaggio. Non si dia pena per le spese. La sua creatività non ha prezzo, come il mio piacere di averla ospite.
Forse nella sua sconfinata ed irreprensibile architettura, Dio ha voluto farci testimoni e agenti di questa occasione della forma.

Suo
Antoni Plàcid Guillem Gaudí i Cornet


L’anziano architetto vergò a mano l’indirizzo del mittente sul retro della busta e lasciò ad Esteban il compito di intestare la lettera. Poi con passò gentile andò ad infilarla sotto la porta del suo assistente.
Diede un’altra occhiata dalla sua finestra e sorrise di gusto, per la prima volta da qualche giorno.
Parigi era quella che doveva essere. Come uno stereotipo fedele a se stesso. La “città delle luci” che non dormiva mai. La città nella quale tutto era possibile.