mercoledì 22 aprile 2009

L'occasione della forma 19^ - Maelstrom


Eriberto Perreira de Bassos aveva un bellissimo bastone da passeggio, con il manico affusolato d’argento, su un asta di cedro liscissimo. Non era un uomo che faceva compromessi. Che si cullava nelle parentele, era uno che amava l’idea di essersi fatto da solo. Ogni mattina, giorno dopo giorno, infilava il solito abito dimesso, ben lontano dall’essere elegante e il suo capello a falde larghe, quindi dava una controllata alla cipolla pendente dal gilet e si metteva in strada. Sempre lo stesso percorso verso la laguna di Faro. A piedi d’estate, in quelle ore d’alba che regalavano l’ultimo refrigerio; in bicicletta d’inverno. Non aveva nessun tipo di vezzo o vanità, forse l’unico era quello di guardare tutte le persone con le quali gli capitava di interagire, negli occhi, almeno un istante, durante la sua giornata. Al porticciolo della laguna arrivava dopo una mezz’ora di passeggiata spedita, salutava le due segretarie con un sorriso gentile, poggiava il cappello e quindi usciva a dare di conto. Contava le barche, le sue barche fuori per quella giornata di pesca, ma le censiva non con la cupidigia di chi vuole arricchirsi ad ogni costo, semplicemente con l’attenzione di chi voleva che le cose funzionassero al meglio. Per principio, si direbbe oggi. Delle sue sette grosse barche a vela, aveva fatto il conto che almeno cinque dovessero essere fuori, ogni giorno, fra i flutti dell’Atlantico. Di queste, sempre ragionando al peggio, almeno tre dovevano rientrare gravide di “peixe”. Fossero tonni, fossero piovre, tartarughe o squali. Di svariata natura o genere. Con questa fedele metodicità, gli affari finivano quasi sempre con l’andare bene. C’era stata, poi, la lungimiranza del fratello di Eriberto, Josè. Lui aveva scalato quasi tutti gradini della gerarchia politica dell’Algarve prima, del Portogallo poi. Le sue leggi sul commercio di pesce, avevano quindi dato la svolta all’economia della cittadina ed Eriberto, che pure spesso non l’aveva pensata come il fratello, di questo era grato. Principalmente a Dio. Così almeno due mattine a settimana, si alzava addirittura dieci minuti prima e passava da “La Fè” per ringraziarlo a suo modo: qualche spicciolo nella cassetta delle offerte, un velocissimo segno della croce e un inchino. Tutto qui.
Nel tardo pomeriggio, poi, Eriberto tornava a casa sullo stesso percorso. Sostava alla taverna dei “Dois bois”, beveva veloce e tornava a casa. Lì trovava le sue due figlie ad aspettarlo. La più grande Rosa che aveva sedici anni, la più piccola Lita che ne aveva 12. Sua moglie Matilda non c’era più dal giorno che quest’ultima era venuta alla luce. Un piccolo sgorbietto nero nero, con due fanali al posto degli occhi. A loro pensava una governante gobba ed efficientissima che già era stata al servizio, qualcuno diceva in “tutti sensi”, del fratello Josè. Che aveva 23 anni più di Eriberto ed era morto da cinque. A Faro avevano dedicato un monumento a Josè Bento Perreira de Bassos, giusto nella piazza centrale. Era quello uno dei riferimenti di Eriberto, nell’incedere mattutino verso il lavoro.
Era una vita frugale, nonostante la considerevole disponibilità economica, una vita magari avara di piaceri per Eriberto, ma piena di piccole soddisfazioni. Il dare lavoro a oltre cinquanta persone era una di quelle, il veder crescere le proprie figlie, nell’assenza della madre, ma comunque secondo i suoi criteri morali ne era un’altra. Lui aveva fatto tutto da solo, ormai ben più di vent’anni prima. Un prestito dalla banca, un primo peschereccio a vela sul quale lui stesso aveva sudato e quindi un secondo e un terzo nei primi anni. Fino ad arrivare a una vera e propria flottiglia, nei lustri successivi.
Qualche volta quindi, qualche rara volta che non si andava a scuola, le figlie del facoltoso Eriberto seguivano il loro “papai” fino alla laguna. La più grande e volitiva Rosa a dare una mano alle segretarie, la più piccola Lita a giocare sui pontili, facendo ben attenzione a non cadere nell’acqua melmosa. A piedi nudi, con le gambe penzoloni verso lo specchio luccicante, Lita fantasticava di viaggi e condottieri, di velieri gonfi di vento e di prodi pirati della filibusta. Proprio come nei racconti di Donna Madeira, la loro governante che le teneva buone il pomeriggio con le immaginarie storie di queste avventure, in attesa del ritorno di Eriberto. Un tentativo che se su Lita aveva sempre presa, su Rosa non sortiva più alcun effetto da un bel po’. A sedici anni, in un corpo slanciato e ben fatto, già bruciava il fuoco della passione più sana e naturale, un fuoco che era ben lungi dallo spegnersi fra le braccia muscolose di un suo coetaneo, il sedicenne mozzo di uno dei pescherecci della flotta Perreira de Bassos.
Lita aveva scoperto questo segretissimo amore della sorella quasi per caso, fra le canne ai margini della laguna, in un pomeriggio di bonaccia in piena estate. Mentre caracollava, sognando di pirati e cappelli piumati, aveva sentito l’ansimare della sorella e, spostando un gruppo di canne più alte di lei, l’aveva vista cinta dalle braccia di quell’adolescente fin troppo uomo, che la copriva con il suo corpo.
Aveva spiato capendo ben poco di quel movimento convulso, appiattita come una piccola e innocua belva nella savana. Aveva visto il corpo agile del ragazzo ondeggiare convulso fra le gambe divaricate della sorella secondo un ritmo coincidente che aveva cominciato a turbarla senza un perché. Infine fra i gemiti dei due adolescenti, aveva osservato il volto del giovane mozzo. I suoi occhi verdi come l’acqua della laguna, il suo lineamento perfetto nell’abbronzatura della sua pelle liscissima. Lo aveva visto, lo aveva studiato come essere diverso da quello che aveva conosciuto prima, confuso nel vociare dei pescatori sui legni di suo padre, quasi tutti più anziani di lui. Questa volta il suo sguardo vi si era posato come occhio che cade su frutto che lento matura e acquista il colore della vita, che fluisce e zampilla denso, come latte vitale. Ne aveva fatto il suo corpo, ne aveva fatto il suo viso, nell’immaginario dei racconti di donna Madeira e aveva finito per vederlo ornato di mille orecchini virili e pendenti con copricapo di pirata e coltello fra i denti, all’assalto dell’ultimo galeone con l’effige di Navarra.
Lo vide rivestirsi veloce, osservò il suo viso sudato e lo sguardo felice della sorella, mentre una nuvola sembrò voler regalare a quell’immagine di candore ansimante, un rifolo di frescura temporanea. Giusto per il tempo di un ultimo bacio in piedi, prima dei saluti e dell’ultimo abbraccio. Fu quello il giorno che Lita, la figlia secondogenita di padron Eriberto, conobbe di sponda l’amor carnale, quello che aveva appreso esistere nei sussurri cenciosi dei paesani al passaggio della sua governante e dal sospirare notturno della sorella in camicia da notte.
Fu una scoperta lieve e leggera come un profumo lontano che ti porta il vento. Effluvio dinamico di coscienza di sé che viene presa e custodita per il futuro. Quel viso maschile entrò nel suo giovane ventre di ragazzina, disponendosi allungato nella zona fra pancia e cuore dove si dispone, atteso e spesso mal custodito, un amore di giovinetta inesperta.
Un viso che, da quel giorno, le tenne compagnia nelle notti più calde di un’estate lunghissima, nel torrido e assolato giocare fra le vie di Faro, nel luccicante bramare dei pontili in laguna. Una viso e un corpo che le entrarono dentro, scoprendo anfratti inesplorati della sua giovanissima anima.
Così la piccola Lita che stentava a farsi donna nel fisico, prese a seguire il padre sempre più spesso, nei pomeriggi estivi senza scuola, nei giorni convulsi della pesca più fruttuosa, nelle ore più lente dell’attesa del ritorno di velieri e pesce.
Eriberto fu piacevolmente sorpreso dall’interesse della sveglia secondogenita per quel lavoro così maschile e già ne fantasticava per lei un avvenire di ricca imprenditrice, perché della prima figlia, troppo avvezza a pizzi e merletti, non poteva farne che una donna da dare in marito.
Lita arrivava col padre di buon ora, sperando che al vascello del mozzo toccasse quel giorno una sosta e quand’anche non capitava, si schierava pronta sul pontile ad attenderne il ritorno. Lo vedeva, con gli occhi della sua immaginazione, agile e proporzionato muoversi sui verricelli, dar di comando ai marinai più anziani, comandare, disporre e gestire come unico dio di quel navigare proficuo. Fantasie di adolescenti ai primi sobbalzi del proprio cuore.
Lo scopriva di giorno in giorno più bello in quelle mattine di ritorno, fra l’olezzo di pesce fresco e la forza bruta dei marinai; lo osservava elastico e fortissimo nello scaricare casse stracolme di piccoli tonni, o di squali e verdesche, lo vedeva ansimare di un altro ritmo rispetto al canneto, spiandone ogni lineamento da dio del mare.
Aveva così preso a ripeterne il suo nome. Nel cuore e nella mente, a sillabarlo con la voce, come fosse dono di dio, nei momenti di solitudine assoluta.
L’emozione più grande fu per lei il giorno che l’improvvido mozzo, saltando giù dal ponte del peschereccio, sempre lo stesso, camminò verso di lei, le sorrise riconoscendo la sua attenzione e, proprio come fa un adulto con un bimbo, con lo stesso cuore, la stessa generosità, le mise in mano sorridente e madido tre minuscoli paguri rosati. Lita chiuse il pugno, arrossita e, senza parole, scappò via a osservare il suo dono. Tre piccoli paguri dal ruvido guscio che si agitavano convulsi alla ricerca dell’acqua in quel palmo di bambina.
Fu il dono più bello che avesse mai ricevuto, fra la carnale opulenza del padre nelle ricorrenze più importanti, fra i circostanziati regali degli amici di famiglia. Quei notabili di provincia, alle cui orecchie già arrivavano i pruriginosi suoni di tresche nascoste.
Capitava, infatti, con regolarità, che Rosa e il giovane marinaio s’incontrassero sempre meno attenti alle forme, ai momenti e ai luoghi. Lontani dagli occhi disinteressati di Lita, ma così vicini ai posti abituali dove servette e governanti di varia natura e disposizione verso l’altro sesso, s’incontravano coi loro amanti e fidanzati. E le voci che corrono, quelle che turbano la disposizione dell’animo umano e che ti avvolgono facendoti dimenticare di un personale passato analogo, viaggiano come è noto con tale decisione, quando sono malsane, che arrivano sempre dove non devono arrivare. Ad orecchie di “amici” che le sedimentano beandosi di un torbido che non c’è, ci giocano coi sussurri nelle occasioni di convivio più ipocrite e quindi le girano ai diretti interessati. Ma solo quando anche il giocarci ha perso ogni interesse.
La voce di quell’amore, sporcato da bocca a bocca, da sussurro a sussurro, arrivò presto a padron Eriberto, uomo pragmatico ma irruente, intelligente ma viscerale.
Quella mattina di fine estate Eriberto Perreira de Bassos si alzò mezz’ora prima, dopo aver disposto la consegna per manutenzione di uno dei suoi pescherecci, sin dal giorno prima. Uscì nel solito modo, camminò fino alla laguna, salutò le segretarie, contò i pescherecci e poi si dileguò. Aspettò per ore fra le canne con il suo bastone da passeggio dal manico d’argento. E infine vide.
Anche se più incredibile e beffardo fu quello che non vide, sotto il sole dell’Algarve, in una minuscola radura, dove un pino marittimo regalava una discreta ombra. Non vide due adolescenti che si amavano, che si riempivano di baci profondi e lunghi, si stringevano di abbracci infiniti in sguardi densi come miele. Non poté vedere due ragazzini inesperti che si regalavano i loro corpi, come unico dono veramente importante in un’età che la non consapevolezza può portare a fughe dolorose a orgogli beffardi, mentre nei due si concretizzava in un amore fisico che di sporco non aveva nemmeno l’erba fra i capelli di lei o le gocce di sudore che scendevano copiose sulla schiena di lui.
Padron Eriberto, accecato dai sussurri, reso pazzo da un errato senso di moralità, portato alla violenza dalla gelosia di padre impreparato a tutto quello, vide invece il suo mozzo che abusava della figlia coetanea. Vide tradimento della sua morale, vide rapimento vigliacco della sua bambina più grande, così moralmente inconsapevole. Vide tutto il nero possibile, quando quel colore aveva fagocitato già tutte le altre sfumature cromatiche che dall’amore partono per arrivare fino all’odio. Vide quello che le sue pulsioni insane gli consentirono di vedere.
Agì, quindi, come uomo tradito e offeso nei suoi affetti più cari.
Picchiò con la forza del mulo che scalcia, col cedro del suo bastone. Sulla schiena. Una, due, tre volte. Alzò il ragazzo di peso per i capelli, incurante delle grida e dei pianti della figlia che gli si aggrappava agli avambracci.
Trascinò il giovane, prima a spinte, poi a calci fino alla piazza centrale di Faro. Qui mise in ginocchio il marinaio sanguinante al viso, alla schiena e alle ginocchia, quindi ruppe il bastone, picchiando un’ultima volta su quelle terga martoriate. Non sentì le lacrime del suo mozzo che regrediva bambino, che scivolava giovinetto per aver osato da uomo vero. Il suo chiedere perdono strozzato dall’ultima bastonata si perse nel nugolo di persone che ben presto avevano fatto capannello, mentre nessuno osava fermare la mano di un padre che continuava a percuotere un genero mancato.
Nessuno osò, perché tutti sapevano. Sapevano di quell’offesa all’onore di un uomo che dava da mangiare a famiglie intere, un uomo retto, giusto. Che non faceva compromessi. Che non si beava nelle proprie parentele altolocate, ma che sotto al monumento ad esse dedicato, in un impeto di quella rabbia tipica degli uomini miti, aveva istintivamente pensato di lavare quella vergogna, quell’insulto alla propria opera di padre senza una moglie, di uomo fiero che guardava dritto negli occhi. Tutti sapevano, sì. Ma nessuno aveva saputo o voluto raccontare di quell’amore, inevitabilmente diventato onta, per un uomo che non poteva comprendere.
L’ultimo calcio Eriberto Perreira de Bassos lo sferrò ansimante al fianco del giovinastro bocconi. Poi se ne andò raccogliendo il suo cappello a falde larghe dalla polvere e pulendosi il viso madido, con l’avambraccio indolenzito dal tanto picchiare. La gente cominciò a fluire, mentre il ragazzo restava steso, piangente. Come un bambino. Come quello che era.
Come un essere dalle pulsioni di uomo, dal pensare di giovane, dall'agitarsi di fanciullo. Incapace di reagire livido, ma in grado di possedere ignaro. Possedere una donna, che era troppo “figlia” per essere tale.

Restava, all’angolo che la sua casa faceva con uno dei tanti vicoli che confluiva nella piazza, una piccola figura tremante nel capo, con gli occhi troppo grandi e i piccoli pugni serrati. Una bella bambina di dodici anni, ormai incapace davanti a un tale scempio, di sognare velieri, pirati e dame innamorate. Incapace di vedere in quell’essere ritornato suo pari, l’eroe dei suoi sogni, il filibustiere dei suoi arrembaggi di giovinetta. Incapace anche di ripetere piano il suo nome: “Amancio”, abbellito in quel vezzeggiativo che da un amore fanciullesco emergeva: “A-man-ci-to”.
Restò poi sola a osservare il suo eroe prostrato, ingiustamente umiliato, mortificato nell’anima, prima che nel corpo. Non ci sarebbero più stati per lei sogni di “cappa e spada”, viaggi fantastici dal volto fiero e artatamente invecchiato di Amancio. Lui una volta era stato pirata senza paura, capitano senza macchia, condottiero senza dubbi. Ora piangeva da suo pari, con il volto nello sterrato e la schiena livida. Sarebbero rimasti per Lita, secondogenita di un uomo troppo fiero nelle sue certezze, solo infatuazioni e amoretti insani. Alla ricerca di un eroe nel volto dei suoi primi baci, di un pirata nei primi amplessi segreti qualche anno dopo, di un condottiero nei suoi due mariti.
Nessun dubbio sulla natura mediocre dell’uomo in quanto tale, dell’amante in quanto oggetto di desiderio, dell’amore “vero” in quanto pulsione controllabile. Avesse il volto affascinante del suo primo marito basco, oppure la greve prestanza dell’ultimo. Il capitano di lungo corso andaluso che le avrebbe dato un terzo cognome, Balaidos.
Quel giorno di fine estate nell’Algarve, fra gli sguardi silenziosi dei paesani, sotto il monumento allo zio, la piccola Estrela Perreira de Bassos si preparò a diventare una donna con pulsioni deviate. Capace di possedere mille uomini, incapace di amarne anche uno solo, senza doverne immaginare il volto nella polvere, implorante perdono in mezzo a lacrime da bambino. Non ci sarebbe più stata figura maschile in grado di elevarne lo spirito, di farla sentire compagna di un eroe, femmina di un condottiero. La sua eredità, quella che si concretizzò negli anni a venire alla morte del padre, oltre al cospicuo capitale diviso con la sorella e a una libertà malsana, fu quell’incapacità di vedere, di accettare un compagno come “eroe” di quel romanzo a tinte forti che era diventata la sua vita.
Ci sarebbe sempre stato un bastone volteggiante dentro di lei, che cala fischiando sulle terga di ogni potenziale amore. Come sibilo di legno sottile, che fende velocissimo l’aria, che diventa fischio e non ti permette alcuna pace. Alcun abbandono sentimentale che portasse all’amore vero.

Quando al “Forat Vermell” quella notte d’aprile, Estrela Balaidos aveva poggiato lo sguardo su Esteban Labruna, prima ancora che questi gettasse il suo occhio depravato oltre il muro di mattoni rossi, un fremito le era salito dalle gambe, passando per le cosce tornite. Il lineamento del giovane architetto, la sua prestanza longilinea, le sue movenze da eroe di cartone, il suo atteggiarsi da condottiero del nulla, l’avevano colpita a tal punto da desiderarlo subito, esplicitando quella passione a termine in un nome che non era scelto a caso e che le usciva da dentro, partendo da una somiglianza di attitudini e lineamenti che le annunciavano al contempo un epilogo di polverose nerbate. Amancito. “A-man-ci-to”.
Un nome che era un conscio beffarsi di lui, del suo essere; e un amaro constatare la propria incapacità di accettare l’amore per quello che è. Un sogno di eroi, condottieri e pirati, non importa della realtà. Proprio non importa.

Esteban Labruna stava, ignaro. Come un bambino che gioca in mezzo alla strada, incurante delle automobili che sfrecciano, acquattato sul suo giocattolo. Invisibile, all’occhio del guidatore, all’amor proprio, accentando di chiamarsi “Amancito”, subendo questo bizzarro gioco di puledra indomabile, distratto dal suo maestro. Fragile, perché appoggiato alla sua carnefice, come preda al predatore. Eppure sereno, come se il suo sentire sempre meno greve e più articolato, come un fiore che sboccia, gli garantisse quella fiducia nella donna che ormai da tempo aveva cominciato ad amare. Per la prima volta nella sua vita.
Il suo ragionare ed ammettere, non aveva rami che potessero allungarsi su Estrela, l’oggetto del suo amore, aveva invece radici profonde che scendevano verso il basso, alla ricerca ingenua della natura stessa del suo sentimento. Del perché il suo giovane cuore ora pulsasse in questo modo strano e forte, del perché fra le tante donne che aveva posseduto proprio lei, che di tutte era la più ruvida, lo avesse preso per mano sostenendolo in quella discesa verso il proprio cuore.
Era la domanda che si fanno tutti gli uomini quando amano davvero per la prima volta e più questo sentimento ti tocca in età matura, più le domande e le mancate risposte, suonano come insufficienti, ma impetuose ed esondanti.
La risposta che si diede stava nelle rinunce. In tutte quelle volte che il suo cuore si era fermato sulla soglia di una seconda, una terza uscita galante; sull’uscio di porte spalancate, sull’ultima femminea sillaba di una parola semplice come “ti amo”, sulla paura che da sempre aveva avuto. Di non esser più padrone di se stesso. Del suo corpo flessibile, della sua vita brillante e dissoluta che preferiva far accartocciare su bisogni tanto terreni da renderlo inaffidabile per ogni nobile sentimento.
Così dal momento in cui si era votato alla protezione incondizionata del suo padrone, dall’istante in cui questo egoismo tremebondo aveva cominciato a incrinarsi, le porte delle sue percezioni si erano spalancate ed i bastoni del suo cuore avevano cominciato a pulsare. Di amicizia infinita verso Don Gaudì, di odio livido verso una croce argentea pendente, di amore verso Estrela, sulla cui immagine le vette del suo sentire toccavano ora le nuvole di nuove speranze.
Trattasi di emozioni uniche votate a vortici impetuosi, che allungano i raggi delle loro onde così lontano nel tempo, trovando il loro "occhio" definitivo in ciò che viviamo ora. E' davvero come uno splendido "maelstrom" al contrario, dove la pace e la felicità si trovano solo nel viluppo di flutti circolari e trascinanti, quando il mare calmo intorno ti parla solo di sofferenza, mediocrità e paura. Paura di sentire. Paura di vivere.
Trattasi di emozioni che sarebbero nelle corde di ciascuno, se ciascuno avesse la forza di affrontare un percorso di tali privazioni e di coraggio, solo apparentemente senza senso. Perché solo chi si è lungamente privato, può abbandonarsi così consapevolmente alla gioia del bramare, dell'ottenere e del trovare un senso alle proprie rinunce.

Il senso alle rinunce di Estrela, lo dava quel ragazzo che le dormiva affianco. Un Amancito che sapeva rialzarsi mentre era bastonato, che aveva saputo reagire ai propri errori da giovinetto e diventare uomo, ora che il destino glielo aveva chiesto, fornendogli la motivazione. Che sapeva incassare i colpi del suo bastone sibilante e che stravolgeva le inaridite certezze della sua deviata femminilità.
Il senso alle rinunce di Esteban era invece nascosto in quella forza giovane e pulita che ora lo pervadeva e che gli sembrava in grado, nel cuore di quell’ennesima notte di amore e passione, di progettare salvezze insperate per il genio che il destino gli aveva affidato, e protezioni per quell’amore che davvero non si era mai atteso di poter vivere. Un amore travolgente, vissuto con un cuore giovane che non si era mai speso prima.

Due corpi in quelle notti si univano, ed erano due corpi con un anima sola, troppo lungamente divisa.

sabato 11 aprile 2009

L'occasione della forma 18^ - Tre fili e due giorni


“Tieni. Intanto questi te li metti in saccoccia…” Fece Estrela a Esteban con feroce arguzia, mentre questi usciva dalla stanza di Antoni.
“Così almeno, se in queste sere ti capita ancora di fare il torello, non mi porti qui malattie” Il giovane architetto si era ritrovato in mano i due preservativi color carne e l’aveva guardata talmente male, da farle dubitare un attimo. Di aver esagerato.
“Beh…Non mi ringrazi? Barcellona è piena di sifilide, non lo sai?” Gli aveva poi sorriso con una luce strana negli occhi
“Ma vattene!” Reagì Labruna ripercorrendo il corridoio verso la cucina. Lei gli era andata dietro.
“Hai pensato a cosa dirmi?” Si erano seduti uno fronte all’altro. Sulla tavola ancora i resti della cena.
“Non ho pensato Estrela. Non ho altri pensieri che quello del mio padrone”
“Tuo nonno? Tuo nonno sta bene. Siamo io e te che andiamo a stare male. Molto male, se non mi spieghi” I capelli neri della ragazza portoghese, raccolti sul nuca davano un brivido a Esteban. Anche in quel momento.
“Ti darei uno schiaffo” Esteban serrò i denti
“Ti manca il coraggio per picchiare una donna. Non è cosa da tutti Amancito…Ma non perdere tempo. Parla”.
Il giovane si versò un bicchiere d’acqua e se lo bevve avidamente, un rivolo gli scese ai lati della bocca. Il fumo rancido del “Forat Vermell”, la fuga, lo sconcerto nella stanza di Antoni gli avevano messo una sete incomprensibile. Non di cerveza, di acqua. Pura e semplice. Bevve una seconda volta. Ma solo per guadagnare tempo.
Estrela, gambe aperte sulla sedia, braccia lunghe in posa lasciva, si accese una sigaretta e sbuffò nella cucina, poi protese il suo collo lungo e lo guardò teatralmente di sottecchi.
“Quindi?” Proruppe dopo alcuni secondi di silenzio.
“Quindi mio nonno, come lo chiami tu, è Antoni Gaudì” A Esteban tornò sete.
Estrela rise caricaturalmente, mente si portava di nuovo la sigaretta alle labbra e la risata si spegneva in convulsi singhiozzi ilari.
“Se la cosa ti fa ridere Estrelita… Magari non sai nemmeno chi è”
“Già, io sono solo una dell’Algarve che scopa bene e mette le corna al marito” Sorrise ancora, prima di continuare: “Sveglia torello, tutta la città sa chi è quell’uomo…Io anche, ma solo pensavo fosse un pochino più SVEGLIO”
E ricominciò a ridere della sua risata sopra le righe, calcando la voce su quello “sveglio” e illuminandosi di un’espressione graffiante e sensuale.
“Stronza”
“Continua Amancito”
“Lui non sta bene. Per ora non è in grado di continuare il lavoro al cantiere…”
“Beh, fallo curare” Aggiunse, allargando le braccia, prima di spegnere la sigaretta nel piatto.
“Non è così facile…Don Gaudì non è una persona comune” Sospirò.
“Sì, vedendo quello schifo che sta portando su”
“Non capisci niente di queste cose”
“Capisco che tutto quello costa un sacco di soldi, Amancito. Troppi soldi. Le cose troppo grandi e troppo costose nascondo sempre qualcosa di brutto…Questo so. E ricordati che sei in casa mia”
“Me lo ricordo Estrelita, stai tranquilla”
“Continua”
“Proprio perché il cantiere costa e il mio padrone ne è il responsabile, non si poteva permettere di diventare quello che è diventato…Proprio non se lo poteva permettere” Esteban deviò il suo sguardo alle spalle della ragazza.
“Vedi – lo interruppe Estrela, riacquistando una posa più aggraziata sulla sedia – è quello che ti dicevo. Cosa può impedire a un vecchio di potersi ritirare o magari di fermarsi per delle cure? Cosa glielo impedisce? Il dover mettere insieme quattro sassi?”
“Tu stai bestemmiando”
“TU bestemmi, idiota…Bestemmiano i preti che costruiscono cose orrende per Dio e se lo dimenticano subito, appena infilano le prime pietre. Bestemmia anche tuo nonno”
“Ragioni come una pescivendola” Il tono di Esteban si fece aggressivo.
Estrela per rabbia prese una tazza dalla tavola e la scaraventò per terra in un gesto stranamente isterico. Perse la sua ironia in un attimo solo.
“Pescivendola sì, quella sono io, ma tu cosa sei?…Sei attaccato alla mutanda del tuo padrone come una piattola. Che cosa ha fatto lui per te di così importante?..Dimmi torello, cosa ha fatto? Ti ha fatto ricco? Ti ha aperto le porte di qualche bordello? Beh, quello potevi farlo anche da solo…So di certe signorine che con i bellimbusti come te applicano tariffe dimezzate…”
Esteban con un gesto veloce cercò di scavalcare il tavolo per raggiungere Estrela. Quella donna di una bellezza bucolica, dagli occhi verdi come pelle di ramarro, dal linguaggio e dalle metafore che si erano fatte di taverna, scansò il placcaggio e ricominciò a ridere di gusto, quando il suo “Amancito” rovinò a terra, trascinandosi dietro piatti, bottiglie e posate.
Lei gli poggiò un piede sulla spalla come a tenerlo giù, lui arrancò ferito nell’orgoglio, più che nel corpo.
“Guardati – gli disse rallentando il battito del riso – non sei nemmeno capace di afferrare una donna e vuoi salvare un vecchio. Che stronzo” Poi gli porse la mano e lo aiutò ad alzarsi.
Lui si rimise a sedere esattamente dov’era, cercando goffamente di pulirsi i pantaloni. Quindi, una volta comodo…“Don Gaudì è un simbolo. Il suo genio lo è…Tu..Tu non sai neanche che cuore batte nella città in cui vivi..”
“Non m’importa della città in cui vivo. Una città vale un’altra. Non sono mai rimasta nella stessa per più di tre anni. Barcellona è uguale a Oporto, a Bilbao, a Marsiglia… Lo è la gente – il suo tono si era fatto più dimesso, quasi meditabondo – Che è gente strana. Per loro dopo un minuto non sei più un estraneo, ma dopo anni resti sempre l’ultima arrivata…Poi sono tutti bravi a cercare Dio fuori, nelle chiese, nei libri e fingono e sono falsi. Come te”
“E per questo che ti concedi al primo che passa” Replicò, tagliente, il giovane architetto.
“Mi concedo eh… Tu non sai niente Amancito, tu NON SEI niente. Sei solo un arrogante figlio di papà che non sa cosa fare della sua vita. Pensi di essere al centro del mondo solo perché il “Forat Vermell” ti spalanca le porte. Credi di essere qualcuno perché sei giovane e bello e ricco…”
“Io non sono ricco, almeno non più”
“Non importa, ti comporti come tale….” Sorrise la donna.
“Beh, non mi sembra che tu te la passi male, primo. Secondo: dove stavo io, ci venivi pure tu. Ti ho conosciuta là. O non te lo ricordi Estrelita?”
“.. E sei pure bravo con le parole. Ma sei venuto da me. A chiedere aiuto”
“E’ l’unico posto che mi è venuto in mente. Non so perché”
“Non mi frega perché. Ora ci sei e mi toccherà aiutarti” Lo guardò con aria di sdegno.
“Non sei obbligata”
“No, certo che no. Idiota - si fece seria - .E’ proprio perché non lo sono che non ti caccio. A te e al vecchio… A ben vedere dovrei chiamare i carabineros, così tuo nonno la smetterebbe di lavorare a quell’orrore”.
“I carabineros non sono un problema” Aggiunse Esteban pensieroso.
“Ah no? E a chi avete pestato i piedi tu e lui? A qualche militare?” Rise brevemente
“No, alla curia…Loro non amano quello che Antoni Gaudì è diventato per la gente di Barcellona”
“Sei proprio uno stupido Amancito. Ti sei messo contro i peggiori”
“Io non mi sono messo contro nessuno”
“I preti…Una ragione in più perché ti dia una mano torello. Ma devi stare alle mie regole, questa è la casa di mio marito. Lui non tornerà prima di un mese e per allora, spero, avremo risolto questo problema”.
“Grazie Estrela” Le sussurrò Esteban dall’altro capo della tavola
“Saprai sdebitarti. Ne sono sicura” Accennò lei pensierosa, mente si chinava a raccogliere posate e cocci. “Nel frattempo io mi occuperò del tuo padrone e tu seguirai le mie regole. Intanto mi darai una mano qui. Le mie governanti non torneranno prima dell’arrivo di mio marito. Tu mi darai aiuto in casa, quando non sarai al lavoro. Non ho voglia di farti da serva. Tu per me non sei nessuno. Ti è chiaro questo?”
“Sì, mi è chiaro”
“Bene, comincia subito qui. Con questo disastro che hai combinato”. E insieme presero a riordinare lo stanzone della cucina.
Era ormai quasi l’alba, quando i due giovani, spossati, scivolarono fra le lenzuola del talamo, senza rinunciare a un’altra ora d’amore, nella penombra che filtrava dalle persiane, negli sguardi e nello stringersi e fondersi.
“Tu non sai quello che rischi” Le sussurrò Esteban agile e madido.
“Stai zitto” Lo baciò lei, con tutto il sapore della sua vita che fluiva in un soffio simbolico.

“Lui è mio marito solo sulla carta” Le disse Estrela, guardando il soffitto la mattina dopo, come se ragionasse ad alta voce, nel sommesso brusio che arrivava dalla strada, attutito dal salire.
Esteban aveva giudicato, a ragione, che farsi vedere troppo presto al cantiere, avrebbe destato qualche sospetto, quindi aveva indugiato sulla pelle di Estrela e aveva atteso la mattina inoltrata.
“Mi ha preso con sé perché sono giovane e gli piace pensare di trovare un letto caldo quando torna a casa, ma ci torna sempre più raramente e sempre più raramente mi tocca compiacerlo. Credo che le sue amanti non siano presentabili come me…Quindi non corro il rischio di essere cacciata di casa. Almeno per ora”.
“Però accetti questa situazione. Secondo me perché ti piace…Ti fai gli affari tuoi” Esteban si era girato di scatto mentre argomentava, come per darle un bacio. Lei si era ritratta con uno slancio di fastidio.
“Sì, mi faccio gli affari miei”
“Che ti succede adesso? Ti sei offesa?”
“No, pensavo a tuo nonno…Questa mattina esco, vado a comprare delle tempere” Disse pensosa
“Tempere eh…Buona idea. Magari lo aiutano a tornare in sé, dovresti comprare anche delle tele però” Fece Esteban ingenuo.
“No, non pensavo a delle tele, proprio non mi passava per la mente. Io di queste cose –gli occhi di Estrela si erano fatti di profilo più umidi e luccicanti – non capisco nulla. Ma credo che…Credo che deciderà lui cosa farne e come farne qualcosa. Insomma… Lo hai visto no? Cosa ha fatto con quel vaso da notte. Io non ho mai visto una cosa così”
“Ti spaventa?”
“No, non mi inquieta. Forse m’infastidisce. E’ una cosa che non capisco. Ieri, dopo aver visto cosa ha fatto, sono rimasta qualche minuto a osservarlo, lui era lì. Immobile, non ha fatto un cenno per molto tempo. Sembra che sia andato da un’altra parte e che gli sia rimasta solo …Solo quella parte di anima e di sapere che gli ha permesso di fare quello che ha fatto. Per questo voglio comprargli dei colori come si fa con un bambino che ha problemi a parlare. Eppoi non capisco. Non capisco il senso di tutto questo. Tu credi che le cose succedano per caso?”
Per la prima volta Estrela mostrò un viso splendidamente dolce, mentre si voltava verso il suo amante, steso nel letto accanto a lei. Nei suoi lineamenti da dea atlantica, erano scomparse ironia, ferocia, volgarità. Sottile o esplicita che fosse. Per un po’ la giovane donna era tornata ad avere i suoi 24 anni. Ad averne il candore e la sensibilità ingenua di una che è donna da così poco.
Esteban si intenerì subito e prese ad accarezzarla, guardandola.
“Non lo so Estrelita. Non lo so se questo ha un senso. Io vedo un uomo che mi ha insegnato molte cose, parlandomi pochissimo e lo vedo diverso da come l’ho conosciuto. Mi sembra indifeso, anche se so che il suo genio c’è ancora. Da qualche parte…Così sento di dover proteggere due cose insieme. La persona che vuol dire molto per me e il simbolo della sua arte – sorrise – E’ come avere un doppio scopo, legato a una persona sola.
Capisci ora perché per tutto questo ne vale la pena..Vale la pena rischiare, vale la pena cambiare la propria vita. No, io non so se abbia un senso per me… So solo che questa è la mia strada, anche se proprio non so dove mi porta” Sospirò sincero.
“Intanto ti ha portato nel mio letto, Amancito e non mi sembra tu ci stia male”. Quella luce dissacrante si era riaccesa, la “poesia” era finita. Anche per il giovane architetto senza talento.
“Mi fai un favore Estrela? Smettila di chiamarmi Amancito”
“Io ti chiamo come cazzo mi pare. Sei in casa mia”.

Verso le 11 Esteban Labruna sgattaiolò fuori dalla casa di Estrela, cogliendo l’attimo di deserto per la strada, passò dal suo appartamento per cambiarsi d’abito e tornò al cantiere. Sul percorso s’inventò un paio di movimenti bruschi per riuscire a scorgere qualcuno che lo seguisse, non si accorse di nessuno. Per quanto era certo che qualcuno gli era dietro. Inevitabilmente.
Estrela, invece, fece come aveva detto. Uscì poco dopo Esteban, indossando un elegante vestito bordeaux, con scarpe nere dal tacco “a rocchetto” e calzò il suo sorriso più accattivante. Fece una piccola spesa alimentare, quindi si infilò in un emporio, dove acquistò 24 colori a tempera con relativi pennelli, rinchiusi in una cassetta di legno. Sorrise al negoziante che non poté fare a meno di notare la sua straripante bellezza portoghese e quindi tornò a casa. Serena e decisa, come se fosse una missione militare, o peggio: da spia. Tutto questo la eccitava, la distraeva dai suoi pensieri, le faceva sembrare più tenue e controllabile un’attesa che non era di suo marito e nemmeno dell’ennesimo amante. Era un’attesa e basta, da “uccidere” possibilmente. Come si fa con certe anatre inquiete che starnazzano fino all’ultimo, senza sapere cosa gli sta succedendo, nel mirino del cacciatore.
Sulla via del ritorno, mentre il suo passo prosperoso attirava l’attenzione dei passanti, sfiorò la vetrina dell’ennesimo negozio, in quella via affollata di Barcellona.
Un negozio particolare. Estrela Balaìdos entrò energica e poi ne uscì con altri tre pacchi tenuti insieme da un cordicella tesa. Ondeggiò poi coi suoi fianchi rotondi, lisciati dalla veste di seta, fino a casa.
Fece volare scarpe, cappellino e si mise comoda nella sua vestaglia da camera, entrò quindi, senza bussare, nella stanza di Antoni Gaudì e lo trovò vestito, seduto sul letto, nella solita posa di assenza. Si era azzardata a lasciarlo solo, perché aveva capito ormai, che solo poche cose potevano scuotere quel simulacro di genio diventato vegetale. Una di queste potevano esser i fiori, i cuoi petali del giorno prima, Estrela provvide a scopare via in un attimo, mentre apriva le persiane e faceva entrare un po’ di luce nella stanza del vecchio. Lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò in bagno, giudicando il pitale, o quello che era ora, vuoto. Sentì l’anziano che si liberava e lo sentì lavarsi, con gesti meccanici e precisi. Dopo un po’ aprì la porta e lo riaccompagnò nella sua stanza. Lì, sul letto aveva spalancato la cassetta con le tempere e aveva lasciato i tre pacchetti scartati
Antoni si risedette sul letto e la ragazza uscì, senza voltarsi.

Al cantiere Esteban trovò agitazione. I suoi colleghi, giovani e meno giovani, vagavano fra l’ufficio che era stato di Don Gaudì e il cuore della costruzione, lucidi e carte in mano, a litigare e cercare di spronare i manovali, i muratori, i capomastri che, disorientati, inquieti, eseguivano i lavori sulla base delle ultime indicazioni dell’architetto di Dio. Era, quello che comunemente si può definire, come un vero e proprio vuoto di potere. “E’ come un esercito con tanti ufficialetti di vario grado, ma senza un vero generale, caduto magari al primo colpo di spingarda” si disse prosaico Labruna. Era peggio, invece, molto peggio: a un generale se ne sostituisce un altro, a un genio ispirato da Dio, non si può sostituire che la sua icona. E’ l’icona di Antoni era lì, ben visibile. Sui visi dei lavoratori più umili, fra gli ingranaggi delle imponenti gru, nell’agitarsi convulso degli architetti, nei litigi fra gli ingegneri. In tutto quell’incedere convulso e sopra la righe, come i toni delle voci che si alzavano, sottintendendo una sola cosa: paura.
Paura di non sapere come andare avanti, paura che quel “mostro” che sorgeva lento non avrebbe avuto futuro, non sarebbe diventato cattedrale, tempio di dio. Paura, anche, di perdere il lavoro, certezza infine di aver smarrito una guida. La guida morale di una città intera, la silenziosa e ombrosa madre del pensiero e del naturalistico disegnare. Che da Dio, questa era la certezza dei catalani, traeva linee e curve e forme e che per dio le ricomponeva, ritratteggiandole secondo il suo infinito talento.
A questo “generale”, la Catalogna, il mondo intero, non poteva sostituire alcuno che non fosse di edulcorata sembianza riferibile al suo padre spirituale. Un “padre”, una “madre” che era scomparsa.

Esteban, superò il dubbio e lo sconcerto e finì, pratico, per giudicare positivo per lui tutto questo disordine, pensò che in quel modo sarebbe stato più facile nascondersi, simulare, occultare.
Sapeva però che un’ora sarebbe scoccata e che sarebbe arrivato il momento di rendere conto.
E infatti quel momento arrivò nel tardo pomeriggio di quel giorno.
“Architetto Esteban Labruna?” L’omino sorridente con le lunette al naso, lo aveva guardato.
“Sua eminenza vuole vederla…In anticipo rispetto ai tempi”
“D’accordo” Fece Esteban, con la rassegnazione interiore di chi ha previsto tutto.
“Facciamo fra due giorni alla curia, lei sa dove”
“Sì, io so dove. Grazie”.

Ritornando dal cantiere verso casa sua quella sera, Esteban non si voltò più, non simulò più alcun imprevisto nel suo incedere per spiare e svelarsi pedinamenti. S’infilò le mani in tasca e con il suo mozzo in bocca, cercò di fare pensieri semplici, gli stessi che uno fa quando le cose diventano davvero complicate. “Due giorni. Due giorni perché?” Si chiese per prima cosa “Per mandarmi un messaggio” Si rispose elementare. “Quale messaggio?” Si incalzò “Trovami Antoni Gaudì che era stato affidato a te o altrimenti scopri che fine ha fatto” Si spiegò, mentre gli sembrava parlasse il viso ossuto dell’eminenza. “Altrimenti?” Si rilanciò doloroso “Altrimenti Labruna, lei paga di persona. E non solo i conti sulla carta”.
Andò avanti lucido a ragionare, fino al suo portone. Si disse che, per quanto bravo fosse stato, aveva lasciato dietro di sé una scia di supposizioni e quasi certezze che non potevano essere sfuggite al “grande occhio” della curia. Era quindi inevitabile che tutto riconducesse a lui.
Esteban sapeva, da catalano, quanto il potere della sua chiesa potesse sulla gente. Sapeva bene che quello, una persona avveduta, non avrebbe mai rischiato di misurarlo sulla propria pelle.
Tornò superficiale e si disse che gli sarebbe andata bene. Fu l’ultimo pensiero semplice mentre si distendeva sul proprio letto, in quell’olezzo di chiuso e stantio che pervadeva il suo appartamento. L’ultimo pensiero semplice di quella sera. Il pensiero più conveniente.

Qualche ora più tardi, nel cuor della notte, dopo essere uscito di casa e aver vagato senza meta per essere sicuro di non avere nessuno dietro, Esteban tornò a casa di Estrela. Entrò a testa bassa, per non farle capire la sua inquietudine, la trovò nella stessa, identica, posa della sera prima. Cambiava solo la vestaglia.
“Tuo nonno ne ha combinata un’altra” Gli disse la giovane donna seria.
“Cosa ha fatto?” Rispose distratto, sforzandosi di non incrociare i suoi occhi
“Inutile che ti spieghi, vieni a vederlo Amancito…Ti dico solo che oggi ho fatto come ti ho detto, ma oltre alle tempere ho acquistato anche tre cose, mi piaceva l’idea che potessero servirgli da tela” Rise: “Io non sono abituata ad avere degli artisti in casa…Uomini sì, ma artisti no…”
Estrela aprì la porta della stanza di Antoni.

Don Gaudì era seduto sul letto, immobile, al suo fianco la cassetta delle tempere aperta, esattamente come l’aveva lasciata Estrela ore prima. Non un colore era stato usato, non un pennello utilizzato.
Davanti a lui, per terra, c’erano tre pacchetti di cartone aperti con del pagliericcio che ne sporgeva.
Labruna si avvicinò più sconcertato che curioso e trasse da uno di questi una sfera di vetro.
Giudicò fosse vetro, per quanto ovvia fosse la natura dell’oggetto.
Inizialmente era stata una lampadina, perfettamente sferica. Una lampadina di quelle grandi, del diametro di una decina di centimetri. Uno di quei generi di lusso tanto in voga nelle case all’avanguardia di Parigi e che ora stavano sbarcando anche nella ricettiva Barcellona.
“Ho pensato che sarebbe stato bello, se ci avesse dipinto qualcosa sopra” Disse Estrela, candida come una bambina “Ho pensato che sarebbe stata più carina…Da ornare, intendo. Ne ho prese tre”.
Esteban osservò quello che Don Gaudì ne aveva fatto, con gli stessi movimenti lenti che ne tradivano lo sconcerto.
Uno splendido ornamento in rilievo per ciascuna di esse, come un lungo disegno circolare che si basava sul principio di tre colori: un nero setoso e sottile, un grigio spesso e lanoso, un bianco cotonato. Le sagome in rilievo che parlavano di figure ascetiche stilizzate, di masse come in preghiera, di santi con l’aureola, di chiese esplose in altezza, era ricavato molto semplicemente eppure in modo talmente incomprensibile che Esteban dovette avvicinare una delle tre lampadine al naso, come per meglio metterla a fuoco. Poi si sedette un’altra volta, sotto gli occhi di Estrela, al fianco del suo maestro assente, si avvicinò alla luce e, come in un gesto diventato abituale, sfruttò la vicinanza dell’intesa luce della lampada sul comodino. Osservò, scrutò, studio con tutta la sua silenziosa concentrazione.
“Ma questi sono fili di tessuti…”. Realizzò ad alta voce, come a cercare conferma dalla sua procace amante. “E da dove vengono?” Aggiunse poi.
Estrela rise, Labruna appoggiò la palla con l’attacco sul letto, quindi si rivolse verso Gaudì, gli aprì la giacca delicatamente, e vide.
Vide la fodera di seta nera sfilacciata all’altezza del taschino interno in basso, vide il grigio del tessuto della giacca che risultava quasi meccanicamente sfilato nella parte del risvolto sul petto. Poi pensò al bianco e andò con gli occhi alla camicia che sporgeva, se ne accorse solo allora, fuori dal pantalone e che, manco a dirlo, era stata ordinatamente fatta a frange.
Capì infine, riosservando una delle sfere a caso: “Estrela, non ci posso credere. Ha fatto tutto utilizzando un solo filo di ciascun colore, per ogni lampadina…”
La ragazza, che si godeva la scena con l’incoscienza e la sicurezza delle persone intelligenti ma ignoranti, trattenendo a stento la risata, fece fatica rispondere.
“Beh, è stato bravo” Poi non ce la fece più e uscì ridendo. Ma avrebbe potuto farlo piangendo e sarebbe stata la stessa cosa. Per Esteban e per lei.
Fattosi di nuovo sotto a Don Gaudì, il giovane pizzicò di nuovo le labbra, aprendole come la sera prima e vide. Vide resti di pagliericcio masticato fra le gengive e capì cosa aveva utilizzato come colla per quell’ornamento incredibile.
Poi guardò il pitale che aveva ormai perso buona parte dei colori e del figurare della sera prima e che era tornato alla sua ben poco nobile funzione originaria. Ancora una volta la base di quel collante era stata l’urina mischiata alla saliva. Solo che, questa volta, l’anziano architetto aveva provveduto masticando, a mischiargli il prodotto di quel personalissimo bolo. E la colla teneva. Molto meglio della sera prima, vicino a quella luce intensa che proveniva dal comodino. I fili non cedevano, rimanevano lì a formare quel bizzarro e bellissimo ornamento che, ad una seconda osservazione, richiamava in parte le figure in basso rilievo del cantiere.
Su una lampadina Antoni Gaudì aveva stampato quello che parve il riassunto della nascita del Messia, su un’altra gli sembrò di riconoscere i momenti della Passione di Gesù, su un’ultima infine il momento in cui, all’ “Ecce Homo!” di Pilato, la folla aveva fatto seguire l’abominevole condanna del Cristo.
Secondo un gioco di linee ininterrotte e ripetitive, i tre colori si alternavano a formare, in rilievo, la terra e gli edifici, gli esseri animati, il cielo a nuvole. Era un altro prodigio, partorito dalla mente dissennata di un genio che aveva perso la ragione del presente, la coscienza di sé e del suo vivere, ma che chiedeva, dibattendosi in chissà quale anfratto della sua mente, di poter esprimere il suo talento. Non importa con quali strumenti.
Quello che Esteban non capiva, anche sforzandosi era “Perché?”. Perché usare quegli strumenti? Petali di fiori e pollini, prima; fili di tessuti ora. Con delle tempere a disposizione.
In tutto quel “non capire”, Labruna, ebbe come uno scatto d’ira inesprimibile e implosa. Ripose le lampadine nei rispettivi involucri di cartone e rimase pensieroso, rassegnandosi infine a restare con molte domande inappagate.
Il “principe del Forat Vermell” si compatì per la prima volta in vita sua, pentendosi al contempo di non aver coltivato la propria anima, negli anni, come la propria carne. Fu un pensiero di inadeguatezza che si fece pungente, fino a quando, uscito dalla stanza dopo un’altra ora di sconcerto e meditazione, gli occhi non si posero di nuovo sull’incarnato della sua splendida amante.

Lei lo aspettava, come si attendono tutti gli “Amancito” di questo mondo. Con un sorriso di ironica difesa, il cuore che le batteva di pulsare opposto e la plastica rigidità di chi attende solo di potersi sciogliere e abbandonare.

martedì 7 aprile 2009

L'occasione della forma 17^ - Sotto il lavabo


Howard sentì male una mattina di fine aprile. Non c’era un perché, nemmeno una ragione specifica, un “motivo scatenante”, direbbe la giurisprudenza. Accadde e basta. Lì fra le mura dell’unica casa che sentisse veramente sua. A Providence, nella tana del suo creare, nell’ovatta del suo vivere anestetizzato. Avrebbe dovuto riordinarsi, fare la solita colazione sobria e asciutta come l’affetto delle sue zie, poi avrebbe dovuto uscire, dare una scorsa ai giornali e quindi rientrare con passo svelto verso casa. Sedersi alla solita scrivania che dava sulla finestra con sguardo sul giardino e battere sui tasti della sua “Remington”. Con tutto l’ardore di quei mesi, la foga di quell’attesa di un viaggio europeo, l’eccitazione dell’aprirsi una nuova via. Nello scrivere, nell’immaginare, nell’autogerminare mostri orrendi e situazioni oniriche. Avrebbe dovuto.
Non fu così.
Fu mentre si spazzolava le unghie con acqua e sapone. Con la solita irrazionale irritazione. In canottiera, davanti allo specchio del suo bagno, diede una prima passata veloce, quindi una seconda, portandosi poi le dita piegate sul palmo, fino al naso. Per meglio osservarle. Una minuscola macchiolina nera sull’unghia del medio nella mano destra faceva bela mostra di sé. Altre due passate non servirono a migliorare la situazione e, anzi, più Howard intensificava la profondità del suo strofinare con la piccola spazzola, più questa pareva acquistare intensità nel candore della parte esposta dell’unghia, nel rosato di quella appoggiata sulla carne.
Erano unghie magnifiche le sue, di dita affusolate, di mani lunghe e slanciate. Mani forti e belle. Nervoso, quella mattina, abbandonò l’attrezzo e con le unghie della sinistra cerco attento di far saltare quella che poteva essere un’incrostazione, chissà da cosa partorita. La sensibilità della sua sinistra non colse nessuna sporgenza, nessun grumo poroso. Quella macchia c’era, ma non come propaggine innaturale, semplicemente c’era. Si era manifestata, era cresciuta, minuscola su quell’unghia curatissima. Del dito medio, sulla mano destra.
Nervoso riprese la spazzola e ricominciò l’operazione. Daccapo. E di nuovo e di nuovo. Ma, niente.
Razionale cominciò a pensare di far saltare l’unghia con un colpo di forbice, poi giudicò troppo drastico quel progetto, quindi ripiegò sulla possibilità di grattarla con la lima. Tenendo le dita della destra piegate a palmo sotto il naso, vagò nel bagno come a cercare una soluzione, si sedette sul bordo della vasca, sconcertato, quindi apri il cassetto del mobile bianco sotto il lavabo e ne estrasse la lima. Frenetico cominciò, preciso, a grattare. Con movimenti brevi e sincopati su una minuscola superficie. E più il suo impegno di moltiplicava, più il suo grattare si faceva forte e delicato allo stesso tempo, più i suoi sensi cedevano. Di schianto. Una porta che era un portone si apriva e l’ordine dei suoi ricordi cominciava a sconvolgersi e qualcosa si muoveva dentro con l’effetto incredibile di un’immagine impossibile. Come uno scoglio enorme che si sposta sull’onda dell’alta marea, come un monte che si piega sotto la spinta di neve copiosa e ghiacciai, o fiume che devia il suo corso per la nascita e il fiorire di un albero nel letto.
Dapprima furono come fulmini a ciel sereno, lampi di luce intensa e dolorosa che illuminano un buio eterno, che spezzano e frantumano oggetti abituati alle tenebre e percuotono e sollevano polvere accumulata nei decenni.

“Howy cosa vuoi fare di me?”
“Voglio fare di te una regina”
“E quando lo sarò?”
“Io sarò il tuo re e insieme veglieremo su questo modo”

“…Veglieremo su questo mondo”. Il limare di Howard si era fatto sussurro nel procedere, come canto di gnomi minuscoli che fanno di coro un loro malessere, in un bagno bianchissimo e pieno di lampi.

“Ci sono delle cose che non ti ho detto. Vorrei parlarti ancora
Dove ti posso trovare?”

La polvere di unghia si dissolveva nell’aria e gli occhi di Howard si gonfiarono piegati, poi la battaglia fu vinta dal nero e fermò la lima, mentre l’uomo si sedeva per terra, sotto il lavabo. Come un bambino che ha rotto un giocattolo di carta.

Con un colpo secco di gomito al fegato sua zia l’aveva svegliato
“Howard fai attenzione al sermone. Non ti distrarre…” Gli aveva sussurrato. Poi con occhi severi aveva appoggiato il suo sguardo sull’altra fila di sedute e aveva capito.
“Quando saremo a casa ne parleremo Howard Phillips Lovecraft e la cosa non ti piacerà”.
Lui si era aggiustato il colletto e sistemato il cravattino. La sua pettinatura lucida con la scriminatura alla destra e il suo biondo slavato non si turbarono per quelle arcigne minacce.
Sorrise sereno e monello, lanciando un’ultima occhiata che cadde pochi metri più in là su Charlotte Ripple. Come un volo di rondine veloce nella chiesa, trovò nido in quello sguardo sorridente a lui rivolto.
“Charlotte Ripple non fa per te Howard. Sua madre si è sposata tre volte, suo padre è scappato di casa, il suo patrigno non ha buon nome, non vogliamo che tu la frequenti” La più anziana delle sue zie, lo aveva osservato aggressiva, una volta a casa, proprio davanti alla vetrata sul giardino. Quella che sarebbe diventata la visuale dal suo studio.
“Poi è troppo vecchia per te. Ha già 19 anni ed uno sguardo…Uno sguardo che non mi piace”
Howard si sorbiva il secondo sermone piegato sul piatto, con la gioia di quello sguardo fugace nel cuore, il sorriso di un adolescente che si è fatto uomo, la beata incoscienza di chi non ascolta.
“Farai come ti abbiamo detto?”
“Certamente zia Lilian. Farò come hai detto”
“Bene, ricordatelo Howard”

“Ricordi il nostro primo bacio Howy?” Lei si era alzata di scatto dal suo torace, qualche ora dopo, e l’aveva guardato un po’ stranita. I suoi occhi grandi e i capelli scompigliati con gli aghi di pino che sembravano ornarla, la rendevano ancora più bella. Providence in estate sapeva regalare delle luci magnifiche e dei bui intensi durante l’inverno. Opposti che non finivano di valorizzare il biondo cenere di Charlotte, i suoi occhi verdi che diventavano marroni in inverno, le sue efelidi sparse intorno al naso che sembravano scomparire quando faceva freddo.
“Certo che me lo ricordo, sono solo passati pochi mesi, mica un’eternità..O forse mi sbaglio…Quello non era il primo bacio con te” Aveva sorriso singhiozzando, con la testa appoggiata all’albero
“Odioso!” Lei gli aveva rifilato un manata di dorso sul fegato. Sempre quello. Stavolta lui non l’aveva sentita.
“Beh..sincero” e l’aveva trascinata giù dandogli un bacio tanto intenso che i loro corpi sembrarono davvero fondersi in un uno.
Charlotte Ripple aveva un anno più di Howard. Lui l’aveva amata da subito, da almeno un paio d’anni prima, da quando i loro sguardi si erano incrociati assenti e poi rapiti all’emporio.Lei per un cesto di prugne secche, lui per la farina. Lei già in cappellino e veletta a scimmiottare le signore di Boston, lui in braghe corte a sbucciarsi le ginocchia coi compagni. Lovecraft non ci pensò mai veramente, ma fu quella una delle ultime volte che mise i pantaloni corti.
Dallo sfiorarsi di sguardi di quel giorno, il tacito appuntamento era stato fissato. Due volte a settimana, alla stessa ora, negli stesi giorni. Lui per la farina, lei per la frutta. Lei, dolcemente sadica a ritardare qualche istante, lui irrequieto a tergiversare nell’emporio in attesa di vederla arrivare.
La prima volta che si erano toccati fu per colpa di un’arancia.
Howard aveva ricevuto l’incarico generico di comprare un po’ di frutta, l’aveva attesa, l’aveva vista comparire, aveva assecondato il suo sorriso e l’aveva osservata appoggiarsi al cesto di arance. Immediato vi si era catapultato. Le loro mani si erano toccate “involontarie”, sotto gli occhi dell’ignaro mister Buff. Quell’attimo era durato ore, giorni, nei pensieri di Howard.
Lui con le dita le aveva sfiorato il dorso, lei con il palmo le aveva cinte, dandogli il suo calore. Si erano guardati, senza bisogno di dire nulla. Come nasce e si rafforza un amore in un giovane cuore non è da esplorarsi. Ma è come impronta di anima in cemento fresco e malleabile, facile da imprimere, impossibile da cancellare negli anni. Nei rari fortunati quest’impronta resta docile e serena nell’animo, negli altri essa s’incatena al profondo e detta, poi, il ritmo di tutte le emozioni future che all’amore possono richiamarsi.
Da esplorarsi è l’amore e le sue implicazioni, come quelle che Howard conobbe mesi dopo, con altri sfiorarsi convulsi, le prime parole sussurrate e il primo incontro segreto.
E gli altri a seguire, culminati al primo bacio, sullo stesso prato, sotto la stessa pianta.

“Io ti amo Charlotte” Aveva, poi, balbettato lui quella domenica pomeriggio, dopo i due sermoni domenicali.
“Io di più” aveva rilanciato lei, sorridente in un pallore forse solo leggermente eccessivo. Lo stesso che il giovane scrittore aveva da sempre giudicato come un segreto particolare di quella bellezza quasi eterea. Incredibilmente sua.
“Allora resteremo insieme, mi troverò presto un lavoro, così potrò sposarti” Com’era lontana zia Lilian. Sembrava che al mondo non esistessero altre parole che quelle appena dette e che tutto, ma proprio tutto, ruotasse attorno a loro e fosse a loro finalizzato. Era una storia vecchia come il mondo, insomma: quella di due ragazzi che si amano con la semplicità di un cuore giovane, eppure così unica per il loro “mondo intero”.
“Io parlerò con mia madre” Gli aveva detto Charlotte “Il mio patrigno non vedrà l’ora di guardarmi andare”
“Io non avrò bisogno di parlare con nessuno. Lo farò e basta”.
“Howy cosa vuoi fare di me?” Aveva fatto, serena, la giovane donna tornando ad appoggiarsi sul suo petto, dopo un attimo di meditazione.
“Voglio fare di te una regina” Aveva detto semplicemente il ragazzo
“E quando lo sarò?” Aveva incalzato lei, come una bambina.
“Io sarò il tuo re e insieme veglieremo su questo mondo”.
Poi si era fatto silenzio. Howard aveva sentito il sussurro del respiro di Charlotte che si addormentava ed era rimasto a guardare un po’ in alto, fra le frasche di quercia, verso quel sole che si faceva nuvola, fra le nuvole che correvano veloci. L’ombra si era spostata, qualche formica era salita sulla sua mano appoggiata al prato ed un pensiero semplice, docile come emozione che era vissuta, piena e dirompente, nel momento in cui pulsava, lo aveva fatto addormentare.
Aveva pensato quanto sarebbe stato bello che quel giorno di grandi decisioni, non avesse mai fine. Non perché temesse il futuro, ma perché era certo di quella emozione che lo prendeva sana e vigorosa, era sicuro di lei, di lei si fidava e gli sembrava, ora che lo sentiva, che il sapore della vita era una bella cosa, quando veniva saggiato, esplorato.
Era quello il momento in cui l’animo di un ragazzo, diventa quello di un uomo vero; l’attimo di bellezza immensa che a un uomo parla di futuro e gli predispone il cuore ad affrontarlo, l’istante di fragilità estrema in cui gli dei della vita, devono mandarti un angelo a proteggerti. E lo devono fare, per scacciare qualsiasi corruzione, qualsiasi rintocco non organico a quella musica. Che, forte, deve partire dal cuore e, sana, deve arrivare alla mente. Intonsa, come un fluire vitale.

Howard rimase appoggiato al muro freddo sotto il lavabo. E restò così. Con le braccia aperte e abbandonate, la piccola spazzola sul ventre e la testa leggermente reclinata. Mentre il suo ricordo gli dava tregua un attimo, gli occhi si sgonfiavano impercettibili e lui aveva il tempo di darsi una logica spiegazione. Si rassegnò all’idea di essersi spinto troppo oltre, di aver troppo a lungo incatenato le sue emozioni, di averci giocato stratificandole senza senso. Una sull’altra, avendo cura che quelle più forti, le più importanti, con un gioco abile da baro di bisca, finissero regolarmente sotto quel mazzo mischiato veloce. Così che fossero le ultime a rischiare di emergere. Sempre.
“E allora perché?” Si disse. Perché adesso emergeva singhiozzante e femmineo il “…ricordo spregevole di quell’amoretto?”.
Che cosa cambiava? Dove aveva sbagliato? In cosa quel meccanismo oliato si andava inceppando?
La risposta avrebbe potuto trovarla nel viso di Sonia, nelle mani di Charlotte, fra le braccia delle donne che non aveva più amato. Perché col proprio cuore non si gioca, non si staccano spine, se non si è sicuri di non aver bisogno di quella corrente vitale che ti porta anche dolore, ma ti parla di vita da vivere nell’istante in cui la percorri e l’attraversi. Così quello che al vivere, all’emozionarti, al pulsare hai sottratto nel momento in cui non dovevi, al tuo vivere attuale ritorna. Senza un senso apparente, senza una logica materiale, se non quella di vecchi conti da chiudere. Con se stessi.
Nel momento in cui si spense il suo momento di lucidità, cominciando a singhiozzare sotto il lavabo del suo bagno, Howard lo accettò con un senso di liberazione e si abbandonò a quello che non era un semplice ricordo, ma anche l’ascoltare un ticchettio.Del metronomo nella sua vita affettiva.
Era un suono malsanamente irregolare.

Il primo giorno aveva pensato ad impegni domestici, cui la strana madre la sottoponeva giusto così: per sfogarsi di una personale condotta di vita non proprio regolare. Una saponata per la casa, in un pomeriggio di fango; la pulizia di un numero imprecisato di finestre, nelle mattine che minacciava pioggia; il giardinaggio, nelle ore più calde dei mezzodì più torridi.
Il secondo giorno, non avendo amici in comune e nemmanco la complicità involontaria di estranei, cominciò a fare un giro attorno alla sua casa, già sospettoso. Notando le persiane socchiuse e un’assenza di movimento nell’abitazione che cominciò a inquietarlo davvero.
Il terzo giorno aveva rotto un primo argine: “Charlotte non c’è” Gli aveva grugnito in faccia il patrigno, un omone sformato al ventre, con pochi capelli, una faccia glabra e con un tono che non ammetteva repliche.
Il quarto giorno di silenzio da parte di Charlotte, invece, Howard aveva rotto gli indugi e sfondato tutti gli argini in quella che sarebbe stata una delle poche volte nella sua vita. Aveva scansato il padre della ragazza all’entrata e si era poi proiettato su per le scale, fino alla camera della sua amata. Non prima di aver sbirciato in giro. Con un’aria frenetica e occhi mobili come non avrebbe mai più avuto.
“La mia piccola non c’è –gli aveva spiegato la madre, una donna azzimata e piangente – l’abbiamo fatta ricoverare l’altro ieri. E’ stata male di notte quattro giorni fa…”
“Dov’è ora?” Aveva gridato Howard, scrollandosi di dosso le braccia del patrigno che nel frattempo lo aveva raggiunto al secondo piano. La madre di Charlotte gli parlava dal fondo della camera matrimoniale, quasi a non voler essere scorta.
“L’hanno portata all’ospedale. Ma tu chi sei? Che vuoi da lei?” Il trucco eccessivo le colava ora sulle guance. Il ragazzo l’aveva guardata e ascoltata coi pugni chiusi lungo il corpo, con la luce di un’aggressività fattiva sconosciuta, inusuale, inesplorata. Non ebbe tempo di disprezzarla.
Lanciò un ultimo sguardo al flaccido padrone di casa, pronto a rifilargli una testata. Si trattenne e uscì.
Corse fino a casa, salì in camera, prese tutti libri che gli furono a tiro, buttò a terra la cassetta di ferro con i quattro spiccioli di risparmio, s’infilò una giacca blu, riprese le scale. Senza guardare in faccia le sue zie che nel frattempo avevano fatto gruppo in fondo alla rampa. Nel tentativo di fermarlo, una di queste gli fece cadere la borsa. Ne uscirono quasi tutti i libri e il giovane Phillips Lovecraft non si curò di raccoglierli.
In pochi istanti era già in fondo alla via, col suo mento sporgente e la bocca sottile, il suo incedere frenetico che lo rendeva ancora più magro, ancora più allampanato con quella borsa a tracolla.

Quando fu sulla soglia della camerata, fuori dall’orario delle visite all’ospedale di Providence, piangente con la suora che gli aveva fatto indulgente strada, Howard si avvicinò al letto della sua futura sposa. Senza chiedersi quale fosse il male bastardo che se la stava portando via, senza domandarsi se e come fosse pronto. Aveva solo 18 anni, non pensò al suo futuro, non pensò alla sua ragione, non aveva cognizione dei suoi limiti e percezione di scrivere indissolubilmente parte della sua storia affettiva in quel preciso momento. Calcò così la sua impronta definitiva, nel cemento fresco del suo destino e lo fece con l’istinto coraggioso di un uomo e l’incoscienza di ragazzo. Connubio ideale per farsi del male due volte.

Charlotte, coperta fino al mento e con i capelli distribuiti sul cuscino, si voltò piano e gli sorrise di un pallore infinito con riflessi dorati nell’incarnato. Tirò fuori una mano dalla coperta e toccò quella di Howard, mentre si sedeva.
“Non ti preoccupare Howy” Gli sussurrò con un sorriso lento
“Presto starò bene..Poi sarò tutta per te” Howard le sorrise e quindi si sforzò di non piangere ancora.
La suora gli aveva consigliato di non avere contatti fisici con lei, lui se lo dimenticò e la baciò sulla bocca.
“Resto qui con te, Charlie…Resto qui con te”.
Lei gli sorrise e si addormentò, concedendo al suo compagno di cominciare a singhiozzare silenzioso col capo chino e una mano alla fronte.

Charlotte Ripple aveva poco meno di venti anni, quando morì di epatite fulminante, pochi giorni dopo. Aveva accanto a sé il suo uomo che era poco più di un ragazzo. Il giovane biondino le era rimasto vicino, da quel momento, per tre giorni e per tre notti. Le aveva tenuto la mano, aveva parlato con lei, in modo sommesso, quasi come se amore confessasse amore. Nelle lunghe pause notturne, quindi, il giovane Lovecraft aveva divorato l’unico libro che gli era rimasto nella borsa, dopo la sua fuga dalla casa delle zie. Se lo era letto in tre fiati, una parte ogni notte, come se quella foga, quel farsi rapire potesse in qualche modo aiutare, quella che avrebbe dovuto essere l’unica donna della sua vita.
Nel via vai delle visite di giorno, nel tossire e nei tenui lamenti notturni della camerata all’ospedale di Providence, Howard si preparò nel suo modo a quel distacco definitivo. Lo fece, come in un percorso autodidattico, ispirato dalla natura della sua anima. Così profonda, così portata alla fine all’estraniarsi grazie a un’incredibile immaginazione. In quel cuore di giovane scrittore germinò così il seme dell’anestetizzarsi, dello staccare la spina, nel momento in cui il dolore si fece talmente forte da poterlo condurre fino all’autodistruzione immediata. Lui non si comprese, seduto su quella sedia di legno al fianco della sua amata che spirava, non capì cosa gli stesse succedendo, quanto d’innaturale e profondamente orrendo ci fosse in quel rendere altro da sé quel dolore immane che, questo sì lo comprese, lo avrebbe segnato. Per sempre.
Fu come istinto di sopravvivenza, quello che non gli fece versare una lacrima, quando il medico di turno la mattina del quarto giorno, certificò la morte di Charlotte.
Rimase in silenzio con le mani giunte fra le cosce, a guardare il lenzuolo che le coprì il viso, prima che se la portassero. Quindi ripose il libro nella sua borsa con un movimento lento e nel farlo si guardò le unghie nere di stanchezza e ridondante toccare.
Trasse un fazzoletto dalla tasca interna della giacca, lo inumidì con la saliva e quindi prese a strofinarsi le dita. Solo al termine di questa operazione, si alzò e se ne andò.
Mentre si allontanava nel corridoio della camerata, emerse l’unico pensiero. Era semplice, di una leggerezza assurda. Una frase desfogliata di sentimenti e passioni ed innaturalmente gravida di bisogni materiali personali: “Ci sono delle cose che non ti ho detto. Vorrei parlarti ancora. Dove ti posso trovare?”.

Quasi vent’anni dopo Howard si stese sotto un lavabo umido e si concesse il pensiero di quello che aveva perso, avesse avuto il viso dal lineamento delicato di Charlotte, o il severo tratto somatico di Sonia. Come in un cerchio che si chiudeva, un’emozione che completava il giro completo della sua vita e gli concedeva la pace di un pianto ritardato e consolatorio.
Quella mattina non ebbe animo di scrivere.

mercoledì 1 aprile 2009

L'occasione della forma 16^ - Il dono di Fierro


Howard non era un osservatore normale. Era un uomo che guardava e, per istinto, indole o genio, lasciava sedimentare, depositare. Dentro di sé, come cumulo di percezioni che, lasciate una porta aperta, trovavano casa in una parte del suo meditare. Ritratte poi alla ragione, sotto la spinta del ricordo. Era quella la fase in cui la sua testa effettuava quel passaggio in più, modificando il suo antico guardare, il suo ricordo, in nuova realtà da riportare in forma fantastica nei suoi scritti. Era uno dei suoi doni, la sua luce accesa nel buio di quell’apparente distrazione, utile a mascherare questo sedimentarsi. Interrogato sul posto, avrebbe potuto mostrarsi incredulo di quanto corta fosse la propria memoria, riguardo a ciò che, poco prima, lo aveva visto agente, piuttosto che testimone, salvo poi scoprirsi acuto e lucidissimo nel riportare a galla le stesse sensazioni e immagini. Ma secondo i suoi tempi, in genuflessa posa rispetto alla sua vocazione di scrittore.
Era quella una capacità esclusiva. Quella di poter aprire le porte della sua immaginazione e accoppiarle al suo sentire, al suo vedere, al suo percepire ormai passati. Ciò che ne scaturiva erano i tratti onirici e mostruosi dei suoi scritti. Così alti nella spinta immaginativa, così reali perché emersi da questo curioso cammino, questo abituale processo, dei suoi sensi.
Tante, troppe volte, questo iter creativo era utile anche a scacciare brutti pensieri attuali, a staccare le spine, le sue spine. Quelle che non gli avrebbero permesso di mettere su carta le sue emozioni autogerminative. Nate dentro di sé e riportate su carta, senza filtri, ne distrazioni sensoriali legate al momento.
Poteva ricevere un delusione professionale riguardo al suo scrivere, e tante negli anni ne aveva ricevute, e viverle come altro da sé, continuando subito dopo a scrivere e traendo da questo sedimentare passato ed al suo macerare altre emozioni. Diverse da quelle immanenti, ma utili a farlo sopravvivere. Howard non viveva sull’emozione del momento, ma su quella passata, sedimentata, sterilizzata, richiamata alla mente, quasi a piacere. In fuga dalla realtà percettiva, all’inseguimento immobile del vissuto.
Sul treno che lo riportava a Providence fu così. Staccò la spina della percezione attuale che gli avrebbe parlato di Sonia, dei propri limiti, della propria inadeguatezza e di quel sentimento che chissà cos’era, ma all’inquietudine lo vedeva muoversi e ne fece il solito “altro da sé”, mentre con un processo abituale sedimentava quel ricordo, quel dolore pungente, e ne traeva altri. Diversi. Più morbidi e per questo più utili al suo scrivere del momento. Con la freddezza di un automa, il gelo interiore di chi non vuol vivere la sua vita, mentre è vissuta.

Il capitano aveva preso dalla tasca interna della sua divisa color kaki un cigarillo lungo e affusolato. Poi, davanti alla grande finestra, dopo averlo fatto roteare sulle dita della destra con l’abilità di un giocoliere, se lo era portato alle labbra. Aveva abbassato lo sguardo di sottecchi e, senza muovere la vista di un centimetro, aveva accolto la scarica.
Le sue palpebre avevano vibrato impercettibili quindi, con la sinistra, aveva strofinato il fiammifero sulla cintura e con due sbuffi indifferenti, il tabacco aveva preso fuoco. Il suo sguardo era rimasto fisso oltre la finestra. Ancora e ancora. Senza cedere un centimetro dal suo raggio. Poco dopo era arrivata la seconda scarica.
“Bastardi di peones!” Aveva sentito sdegnarsi alle sue spalle. Il suo attendente allampanato aveva avuto un fratello ucciso pochi mesi prima. “Pezzenti stramaledetti!… Merde fumanti!”
“Rodrigo, ti prego!” Aveva lanciato il capitano, voltando il capo di scatto verso il subordinato alle spalle.
“Mi scuso signor capitano!” Il sergente si era irrigidito buttando il petto in fuori.
“Non voglio sentire commenti – aveva incalzato l’ufficiale – Se vuoi guardare, guarda. Ma stai zitto!” Il suo sguardo sulle ultime parole era finito di nuovo oltre la finestra, sul piazzale movimentato della caserma. Nella polvere di quella giornata asfissiante, altri soldati stavano.
Chi disposto in riga per due, chi ad accompagnare e spostare.
“Oggi ne sono previste sedici, signor capitano” Aveva sussurrato Rodrigo
“Sedici sì…E siamo solo a quota due” Aveva rilanciato il comandante, come fosse al mercato delle vacche.
“Ci sarebbe anche quella…Quella Isabela...Isabela Exteberrìa. Sono diciassette signor Capitano”
“Sì, diciassette” Aveva confermato con voce profonda, guardando sempre oltre la finestra, mentre una terza scarica si spiegava nell’aria.
Nell’area polverosa sotto gli uffici dell’amministrazione, due file di soldati parallele, una di accovacciati, l’altra di ritti col fucile imbracciato attendevano. Tre uomini portavano via un corpo disteso come una coperta sotto un muro crivellato, tre uomini ne portavano un altro che camminava già morto. Dietro di loro un prete corvino con libro e croce in mano.
Il quarto uomo, sotto gli occhi dell’ufficiale, accondiscese a farsi slegare, accettò l’estrema unzione del prete e si godette quel sole forte, per effetto di una squarcio geometrico dell’ombra, che regalava luce in forma di triangolo giusto nella zona dell’esecuzione.
Con la dignità di una statua, il condannato porse il viso al plotone. La quarta scarica lo colse in pieno. Le palpebre del capitano non vibrarono più.
“Posso signor Capitano?”
“Che c’è Rodrigo, dimmi…”
“Volevo chiederle, se posso permettermi…”
“Puoi”
“A lei non piace questo. Perché lo guarda?” Una quinta scarica entrò nell’ufficio al terzo piano della palazzina, come fremito in un crine di cavallo.
“Perché è scritto – rispose il comandante, senza voltarsi dal piazzale -. E’ scritto nel regolamento degli ufficiali..” E recitò a memoria. “Qualsiasi ufficiale si venga trovare in zona di esecuzione capitale, deve fermarsi e assistere sino al termine. Nel caso di assenza, impossibilità o incapacità del comandante del plotone, esso deve sostiuirvisi e assicurarne…Sì, vabè. Ci siamo capiti Rodrigo”
“Ma non capisco Signor capitano, in questa caserma ci sono almeno quattrocento ufficiali…”
“Non fa niente. Un regolamento è un regolamento”
“Mah”
“Niente “ma”. Forse è per questo che non sei un ufficiale”. Sesta scarica.
“Forse è per questo, sì”
Terminata la serie di fucilazioni maschili, poco dopo fu la volta della diciassettesima esecuzione.
Isabela Exteberrìa, si diceva fosse una delle amanti del generale Rodolfo Fierro, era stata catturata poche settimane prima. In un cesto le avevano trovato tre pistole e una granata. Nel tentativo di fuggire aveva sparato a due guardie governative. Una era morta. Oggi era lì, vestita in modo dimesso, con i suoi capelli screziati di bianco, il suo viso di quarantenne sofferta e movimenti pieni di calma e dignità. A rifiutare l’estrema unzione con un sorriso gentile, a rifiutare il fazzoletto nero sugli occhi.
Il plotone seguì gli ordini e la donna gridò: “Viva la rivoluzione! Viva Villa! Arriba Mexico!” La diciassettesima scarica le tolse il fiato. Per sempre.
Il capitano seguì la scena, le sue palpebre vibrarono ancora, per l’ultima volta quel pomeriggio.
Due soldati degli otto erano rimasti a capo chino, nell’atto di sparare.
Nel piazzale il tenente che li comandava gli si era avvicinato furibondo e aveva cominciato a frustarli sul viso col suo scudiscio: “Cabrones! Hicos de pierro!” Le sue urla si erano levate alte, ancor più di quelle della donna sacrificata, da dea perdente di una guerra. Uno dei due si era inginocchiato piangente, l’altro rimasto in piedi, due compagni più in là sempre nella fila davanti, meglio porgeva le guance a quelle frustate profonde.
“Vedi Rodrigo? Noi fuciliamo le donne..Abbiamo il nemico fra di noi, dovremmo cercare un’altra strada”
“Dovremmo, signor capitano. Ma chi deve morire, deve morire…”
“E chi lo decide?”

Howard aveva ancora in mente il viso di Paco, mentre raccontava con il suo fluire sereno e il suo sguardo luccicante. Aveva ascoltato i suoi racconti dettagliati la sera prima e se li era lasciati scivolare dentro. Aveva accumulato sensazioni, pulsioni, emozioni. Mentre il messicano dal pizzo brizzolato raccontava della sua storia, con un sorriso di serenità che sapeva di sinistro, in fondo.
Mentre il treno viaggiava e il suo sguardo si rifletteva assorto in quel paesaggio, Howard era scivolato di nuovo sul pensiero di quell’uomo che gli aveva dato ospitalità, che gli aveva aperto la casa e gli aveva raccontato di sé. Pensò, ma solo per un attimo, di dare i suoi lineamenti al protagonista di una delle sue storie, di dargli il suo peso, il suo spessore umano, la sua languida inquietudine. In una serenità che poteva scavalcare, gli sembrò, qualsiasi ostacolo ora. Sulla scorta del suo vissuto. Era una storia semplice.

“Capitano De Los Rios eh..” Quell’uomo impolverato e carico di armi gli si era avvicinato serio, tenendo il documento militare aperto davanti agli occhi.
La carrozza del treno era pervasa da una puzza di polvere da sparo e di sudore rancido che faceva rabbrividire.
Davanti all’ufficiale di amministrazione, due uomini, fra questi Rodrigo, giacevano. Uno bocconi, l’altro, il suo attendente, piegato innaturalmente su una sedia col sangue che gli colava dalla bocca aperta e uno sguardo vitreo che parlava di morte.
Paco, con le mani legate dietro la schiena era in piedi.
“Voglio..”
“Tu voi, porco?” L’aveva zittito uno dei due uomini che lo tenevano fermo per i bicipiti.dandogli anche un doloroso strattone.
“Cosa vuoi?” Si era avvicinato il generale
“Vorrei chiedervi di chiudere gli occhi al mio attendente”.
Il treno militare sul quale avevano viaggiato verso Chihuahua, era fermo, mezzo in fiamme, mezzo no.
Era bastata una carica sulle rotaie pochi metri più avanti la motrice e centinaia di ribelli avevano fatto a pezzi tutto. Convoglio immobilizzato, vagoni, anime di trentasette soldati governativi. Oltre a quella decina che si era arresa.
Il generale Fierro aveva fatto un cenno col capo a uno dei suoi e questi si era chinato su Rodrigo Estevez dando pace definitiva al suo sguardo.
“E ora cosa vuoi Mon Capitain? Vuoi anche un caffè?… No?” Aveva sorriso brevemente Fierro, con tono ironicamente accondiscendente. Il suo fiato amaro arrivava alle narici dell’ufficiale.
“Ti sei difeso bene –aveva ripreso il comandante -. Molto bene per essere un contabile e sai sparare…”
“El Gèneral abbiamo trovato la cassa” aveva prorotto un ribelle di Pancho Villa, entrando nella carrozza alle spalle del suo capo.
“Bene, vai” Gli aveva indicato Fierro senza voltarsi, poi aveva ripreso.
“Ora non mi servi nemmeno più per questo “mon capitain”…Hai paura di morire?”
Paco de Los Rios aveva chinato il capo piano, come segno di assenso. Poi era tornato su quella figura tarchiata, ne aveva osservato gli occhi verdi, il baffo fluente, l’abbronzatura maculata alle orbite, i denti bianchi. Si sentiva già morto, ma questo non lo faceva sentire meglio.
“Bravo, devi averne. Perché vedi noi non facciamo prigionieri fra gli ufficiali. Troppo pericoloso…E allora c’è un problema. Cosa me ne faccio di te?…”
Si era seduto al tavolo rotondo. L’unico che non si era rovesciato durante la sparatoria.
“…In fondo sei un militare, anche se solo un contabile ed è un peccato sai? Se fossi stato anche solo Colonnello avremmo potuto chiedere un riscatto. Ma sei solo…Solo un nulla. E non hai nemmeno segreti da dirmi mon capitain…”
“E’ vero, non ho segreti”
“Bene, dimmi allora capitano…Capitano De Los Rios, dimmi una ragione perché dovrei evitarti la morte. Una sola”.
Paco stette in silenzio alcuni secondi, sentiva le braccia allungarsi dietro la schiena, tendersi dolorosamente, il sangue non fluiva più alle mani. Poi parlò, non per illudersi di salvarsi la vita e nemmeno per vendetta anticipata. Parlò e basta.
“Isabela Exteberrìa”
Fierro abbassò lo sguardo un attimo, indicò ai quattro uomini di uscire con un cenno secco del capo. Poi, rimasti soli, tornò sul suo prigioniero e sorrise cattivo
“Sentiamo”
“Io ero lì quando è stata fucilata…L’ho sentita gridare per tre volte. –disse le tre frasi-.. Ora che sto per morire, capisco quanto è difficile farlo. Capisco quanto è difficile non piegarsi e implorare pietà di fronte alla morte. L’apprezzo per questo e penso che se ce l’ha fatta lei, posso farlo anche io. Stando zitto, io non ho motti da gridare”
Fierro si passò l’avambraccio sulla bocca come per asciugarla e rimase in silenzio a fissarlo seduto.
“Isabelita era la mia donna”
“Lo so”
“Tu non hai un cuore da soldato mon capitain…Perché hai scelto così?”
“Non lo so. In guerra, per un soldato è più facile forse…Spari e uccidi, ti sparano e muori. Senza sfumature, senza compromessi, senza altro dolore forse. Io oggi muoio. Se puoi fai in fretta, ho paura… Questo è dolore che non ho scelto”
El gèneral Rodolfo Fierro si alzò ed estrasse una delle pistole appoggiate alla cartucciera di tracolla e gliela puntò verso la faccia. Il suo sguardo deciso, che aveva in sé tutta l’assurda praticità di una guerra di rivoluzione combattuta fra poveracci puzzolenti e soldati senza anima, parve sciogliersi in una piega di riflessione. Inaspettata, inattesa, sconcertante.
“No capitano De Los Rios, oggi credo che tu non morirai. Ti voglio fare un regalo, anzi…”
Chiamò due dei suoi, lo fece slegare, poi gli afferrò la mano e trasse dalla tasca un taglia sigari ottonato.
Lo infilò al mignolo della docile destra di Paco.
“Viva la Ri-vo-lu-zi-o-ne” gli sussurrò mentre la lama affondava in quella carne con un lento e implacabile incedere. Si sentì il primo soffice tonfo di propaggine innaturalmente caduta.
“Viva Vil-la” Ripetè l’operazione sull’anulare con uno scatto più veloce.
“Ar-ri-ba Me-xi-co” Concluse lo scempio sul medio, con tutta la lentezza di quel sillabare assurdo.
Gli occhi piangenti di paco, il suo mordersi il labbro interno, la voglia di urlare repressa per orgoglio lo fecero accartocciare sul suo sangue che continuava a colare.
Poi, lento e inesorabile, partì il primo singhiozzo di dolore fisico che si fece lacrime, che si fece urlo sommesso come di bimbo che vuole piangere, ma non può.
Fierro estrasse dalla tasca un fazzoletto bianco e glielo porse.
“Ora mon capitain devi imparare a convivere con tutto quello che c’è in mezzo fra l’uccidere e l’essere uccisi… Le tue tre dita me le prendo io. Appartengono a Isabela”
Paco De Los Rios lo guardò dal basso, paonazzo e piangente. Ma recuperò senno e forza di combattente e con un cenno repentino del capo fece di “sì” con la forza di un’antica dignità militare.
Una volta che i rivoluzionari se ne furono andati, dopo aver ucciso gli altri otto prigionieri, Paco de Los Rios era rimasto solo nella campagna brulla.
Barcollante, si urinò sulla ferità per disinfettarla, estrasse un fazzoletto dalla tasca di un compagno caduto e si fasciò, tamponando il suo sangue.
Cammino, solo, per dodici chilometri fino a Chihuahua.

“Io non so perché Fierro mi fece questo, al posto che uccidermi – aveva detto ad Howard, la sera prima, mentre sbuffava col suo ennesimo cigarillo – e per anni ho solo pensato a che bastardo fosse stato a mutilarmi in questo modo, a lasciarmi monco, senza la mia dignità di soldato. Poi, quando il tempo ha lenito questo dolore ho cominciato a capire…No, mister Howard. Io non credo che Fierro avesse voluto semplicemente salvarmi la vita.
Sì, forse vide nei miei occhi una luce di lealtà che lo spinse a farlo, ma non fu solo questo. Io credo che volesse regalarmi davvero qualcosa, forse un’altra opportunità di vita, da spendere così – e alzò la destra coi tre moncherini, sorridendo sereno – lontano da un vivere che non era il mio. Io questo credo: mi spinse davvero a esplorare tutto quello che c’era in mezzo fra lo sparare e uccidere, l’essere sparati e morire.
Ora, mister Lovecraft, lei viene da me e mi dice che queste tre dita sono la mia forza… Il mio segreto quando preparo il caffè – sorrise - . Non lo so, ma è un’affermazione curiosa, non ci avevo mai fatto caso. La verità è che nulla varrebbe il dolore di averle perse in quel modo, forse solo una nuova vita. Della loro mancanza pensavo di non rammaricarmene più, ma di gioirne…” E con il suo sguardo furbo rialzò la mano e agitò le dita della destra. O quello che ne rimaneva.

Quando Howard Phillips Lovecraft, tornato da Cleveland, rientrò a Providence con virtuali ragnatele sugli occhi e una sensazione di sonno arretrato, lo fece con la certezza di un matrimonio dissolto che si sedimentava dentro il suo cuore e l’abbozzo di un nuovo racconto.
Non sapeva ancora come svilupparlo, nemmanco da quale anfratto tenebroso del suo immaginifico attingere le figure mostruose che lo avrebbero caratterizzato; sapeva però, già in parte vergate su uno dei suoi taccuini, che carattere e che umanità articolata avrebbe avuto il suo protagonista.