mercoledì 28 ottobre 2009

L'occasione della forma 24^ - Solita bandiera...Solito canto


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Howard ricevette una lettera una mattina d’inizio giugno. Da principio proprio non si accorse di quel plico leggero ripiegato in una busta giallina, così ritirò la pila di missive dalla cassetta delle lettere e, senza neanche sfogliarle, andò a deporle sul trumò nell’entrata. Poi uscì, distratto dai propri pensieri. Non prima di aver salutato le zie e aver ricevuto in cambio l’ormai abituale silenzio ombroso di Lilian.
Era una di quelle giornate che riconciliavano con la cupa Providence: il sole era alto, i giardini profumavano, la gente per strada sorrideva. Da un po’ di tempo Howy aveva preso un nuovo giro nelle sue passeggiate mattutine, attraversava direttamente il centro del borgo, camminando velocemente sul marciapiede, facendo ben attenzione a non calpestare la giunzione delle mattonelle di cemento. Quello era l’unico artificio che lo teneva legato alla realtà quotidiana per la durata di quella che avrebbe dovuto essere un’ora di svago puro, prima di sedersi alla Remington e ricominciare scrivere. Esattamente doveva aveva lasciato la sera prima.
In realtà erano passeggiate veloci, di puro esercizio fisico, di percezione aliena dalla volontà di mischiarsi con la microrealtà della cittadina. Qualcuno lo salutava, lui rispondeva, ma se qualcun’altro avesse avuto l’idea di chiedergli qualche passo più là “chi” precisamente avesse salutato, Howard certamente non l’avrebbe saputo dire. Salutava e basta. Per cortesia. Per esser lasciato in pace, anche.
Così qualche volta capitava che, tornato nel suo studio, non si rendesse neanche conto di chi avesse incontrato e, soprattutto, quali parole gli fossero state rivolte.
Quella mattina d’inizio giugno non andò così. Proprio davanti al municipio, mentre sobbalzava con il suo strano passo da segaligno, capitò che incrociasse il postino del paese, il quale sorridendogli gli aveva rivolto un… “Abbiamo ricevuto posta importante, oggi mister Howard eh..”
“Posta?…Importante?” Lovecraft realizzò l’essenza di quella affermazione, almeno una manciata di secondi dopo che ebbe salutato l’omino della posta. E fu un attimo.
Corse a perdifiato verso casa, tanto da scansare a fatica i pochi passanti sul marciapiede opposto, raggiunse il cancelletto della sua casa, lo aprì e proruppe nell’entrata, proprio mentre zia Lilian si portava agli occhi quella strana missiva.
“Ber..Bar…” Abbozzava distratta l’anziana, nel tentativo di leggere il timbro postale.
“E’ roba mia, zia Lilian” Gli disse Howy, serio.
La donna gli mise la lettera in mano.
Lui andò nel suo studio, aprì, lesse.
Fu come quando il vento gira.
[omissis]

“Dodici, forse quattordici chilometri…Ma dovrò trovare il modo di fermare tutto questo. Tutto questo” .
Non era solo il dolore, nemmeno il caldo afoso, forse solo l’idea di quello che aveva perso. Di ciò che non avrebbe avuto più, qualsiasi cosa fosse accaduta da lì in avanti. Era quello l’ostacolo più difficile da sopportare ora che, sapeva, avrebbe vissuto un’altra vita.
“Quale vita?” Il pensiero gli ribolliva dentro, come una caffettiera stracolma sulla fiamma.
“Dodici o quattordici chilometri…”.
Da fare a piedi: ad ogni passo un po’ di sangue in meno, ad ogni falcata una goccia di sudore. A confondersi e fondersi e impastarsi con la sabbia sulle mani, o su quello che ne restava. Non si chiese se voleva vivere, fu quella la sua fortuna, perché è quell’anima indipendente insita nel corpo umano che certe volte, quelle volte più drammatiche, spinge le persone a resistere. Malgrado tutto. Così non fu la mente a tentare di salvarlo. Fu il proprio corpo, sganciato da ogni pulsione intellettuale, affrancato da ogni volontà cosciente. Fu quello che comunemente è chiamato “istinto di sopravvivenza” che lo sorresse, trascinandolo a un passo, a un altro, al successivo…Se questo compito fosse stato delegato alla ragione, non ci sarebbero stati quei diecimila passi.
“Conterò i passi…” Si disse poco dopo aver urinato su quelle tremende ferite ed aver sentito, in tutto la loro assurda essenza e per la prima volta, quei tre moncherini che s’irrigidivano e si flettevano in fitte di dolore lancinante. Poi sragionò: “La piscia. La piscia mi salverà…- si ripeté ad alta voce che il fumo del treno in fiamme era ancora ben visibile alle sue spalle – Lo sanno tutti che ha il potere di anestetizzare..No, no…Meglio ancora: di cicatrizzare, di sterilizzare…”. Subito dopo aver compiuto l’operazione Paco non poté fare a meno di guardarsi la mano destra, per un attimo pulita dal sangue e dalla sporcizia, vide le tre dita e quello che ne restava. Mignolo, medio e anulare esistevano solo nella radice che si univa alla mano. Tre tagli netti, ordinati e asimmetrici, lo rendevano monco. Fu come guardare la propria bara, prima che gli amici se la caricassero sulle spalle al proprio funerale e quindi apostrofarli: “Io sono ancora vivo! Ancora vivo!”..
“La mia mano c’è ancora” Farneticò Paco sorridendo strano. Avvampato da un’ebbrezza instabile.
Si sentì sull’orlo della pazzia fra dolore e sconcerto e paura. Poi poggiando la mano ferita al petto della giubba kaki, con la sinistra si arrotolò uno dei fazzoletti sottratti ai compagni morti, strinse forte serrando i denti, cancellando le fitte sconosciute che ne percuotevano mano e braccio fino alla spalla. Strinse forte, come per mettere in quel gesto, tutta la voglia che aveva ancora.
Di vivere, di provare a essere qualcosa di diverso.
Ma non era la sua mente che spingeva, era il suo corpo, le sue membra che pulsavano, indipendenti dal cuore e da una testa obnubilata, schiava del dolore, confusa dalla mutilazione. Dell’agire, del disporre.
“Uno due..Uno due..Un passo dopo l’altro, una marcia, questa deve diventare una marcia. Chihuahua non è lontana…Ci arriverò in tre ore, forse quattro”
Si disse, mentre il sole alto, l’odore della polvere da sparo, il puzzo del fiato di Fierro ancora gli stagnavano addosso, come la farina sui panettieri al mattino presto. Il deserto pietroso era come un grande paiolo di rame, dove si arroventava la vita di un capitano dell’esercito messicano che aveva perso se stesso, o quello che aveva scelto di essere fino a quel momento.
Fu ritrovando la disciplina della marcia che gli avevano imposto all’accademia fino allo sfinimento che Paco de Los Rios arrivò a coprire cinque, sette, nove chilometri in poche ore. Dritto come un filo di erba, esile come una corda tesa, vulnerabile a un’idea: quella di cedere alla stanchezza, al dolore. Quindi anche il suo corpo cominciò a flettersi debole, il braccio al collo gli aveva intriso la giubba al ventre, gli stivali impolverati non avevano che il ricordo dell’antica luccicanza delle parate.
Si fermò, si chinò, buttò il capo fra le gambe senza accovacciarsi come a riprendere le ultime forze. L’orizzonte, fino a quel momento increspato solo da roccia e pietrisco polveroso, finalmente gli regalò un’immagine. Era la propria, quella di giovanissimo cadetto dell’Accademia che, fermo, determinato, convinto, recitava ad alta voce la preghiera dell’ufficiale messicano. La filastrocca ridondante che imponevano a memoria ad ogni ragazzino. Ad ogni futuro ufficiale. A lui piaceva. Piaceva come può piacere a un ragazzo l’idea di appartenere a qualcosa, di essere qualcuno. Confuso fra la folla dei suoi simili, unito a loro. Nei successi, nelle sconfitte, nella gioia, nel dolore. Gli consegnava l’idea di non essere mai solo, di essere quella parte di un tutto che lo rendeva certo meno libero, ma infinitamente meno vulnerabile. Alla vita, alle sue sconcezze.
Così con la bocca amara per la sabbia, la giubba intrisa, le gambe pesanti e quella voglia di dormire che gli sussurrava un annuncio di morte, cominciò a recitarla ad alta voce, perché anche la sabbia, il vento caldo fra le dune, le pietre dei cumuli arroventati potessero sentirlo. Perché lui non era solo. Era parte di qualcosa il capitano Paco de Los Rios. Aveva vissuto in quella e per quella, si era nascosto, si era cullato proteggendosi.
E ripetè. E ripetè.

“Io sono quello che cade. In fondo alla fila di destra. Che non ride più, affianco al suo compagno, ignaro e sordo, che procede il passo. Sì, io sono quello che cade, con la sua divisa di pulsare frenetico, le giberne rase a pallottole oliate, la luce che si spegne. Lontano dalla bandiera, vicino alla meta. Così uomo, così donna. Dal ventre che mi ha generato, al prato che accoglie il mio viso caduto. Con musica di tamburo nel cuore che spinge a rialzarmi.
Di ferite non si muore, se non si ha paura.
Io sono quello che cade là, in fondo alla fila di destra. Io sono quello rialzato a continuare la marcia” .


Quella prima sera passata a casa del traduttore il capitano de Los Rios aveva continuato a raccontare ad Howard questa storia, la sua storia, lisciandosi il pizzetto più volte, con un sorriso per nulla drammatico o ironico. Solo con la consapevolezza di chi sa di averla scampa bella, di aver avuto una seconda chance. Forse inutile, quasi certamente immeritata, come non sempre, anzi quasi mai giusta è la spinta del caso che dice “bianco” per te e “nero” per chi ti sta affianco. O viceversa.
A un certo punto del suo racconto aveva poi cominciato, con un’abilità imprevista a disegnare frenetico su un foglio di carta.
Howard l’aveva ascoltato e si era rasserenato, dopo lo sconcerto per il “dono” che Fierro aveva fatto al suo amico quindici anni prima e aveva giudicato strano: lui che aveva votato la sua scrittura all’orrorifico, al mostruoso, all’orrido, pulsare ed emozionarsi per una storia così semplice, così reale.
Il disegnare del suo ospite si era quindi fatto più impegnativo e deciso.
“Dimmi americano: non sei curioso di sapere come mi sono salvato?” Gli aveva chiesto a un certo punto Paco, svegliandolo dalla sua meditazione, dal suo sedimentare la storia.
“Sì, ci stavo arrivando Paco” Ribatté pronto Howard, come svegliato si soprassalto.
“Niente… Ho recitato questa filastrocca cento volte, non ricordo più. Appena in lontananza ho visto le prime case di Chihuahua ho smesso. Mi sono seduto e ho ceduto alla stanchezza”
“Ma come? Proprio nel momento più importante, hai voluto rischiare apposta…”
“Sì – aveva sorriso il traduttore – , anzi no. Ho voluto vedere cosa mi attendeva. Non ero sicuro di voler vivere in quel modo, con quella mano destra. Ero stanco, dissanguato. Ho pensato di far decidere al destino e mi sono lasciato addormentare. E’ andata così. E andata bene no?”
Howard era rimasto come pietrificato per alcuni istanti, quindi quel silenzio era stato rotto da Paco che era tornato sull’ultimo quesito.
Lo scrittore ebbe il tempo di pensare che non era male di fronte a un bivio, far decidere al destino. Quello “vero”, quello che quando sei totalmente in balia degli eventi, davvero si rende visibile nella sua cervellotica astrusità. “Bianco o nero” Si ripeté Lovecraft, pensando alle ultime parole del suo traduttore. “Bianco o nero e tu non puoi scegliere. O per una volta: non vuoi”.

“Finì che fui raccolto a un paio di chilometri dalla salvezza. Mi salvò un gruppo di poveracci in fuga dalla guerra civile – aveva poi spiegato Paco, una volta terminato il proprio disegno e ripiegato il foglio -. Avevo pensato che solo per il fatto di essere un “odiato” militare mi avrebbero fatto a pezzi. Non fu così, per fortuna. Era povera gente impaurita, alla ricerca solo di un po’ di tranquillità e protezione. Costi quel che costi.
Avrebbero potuto finirmi a bastonate o anche lasciarmi lì a morire dissanguato, nessuno lo avrebbe mai saputo.
Così in un colpo solo capii che quella rivoluzione nasceva sì fra la povera gente delle campagne, ma che non tutti fra questi la volevano; e che c’è ancora tanta gente che ti guarda e ti vede solo come un uomo, nonostante i panni o le divise che vesti. La mia vita ricominciò da quelle due certezze. Ancora adesso penso che Rodolfo Fierro lo sapeva. Sapeva che sarei andato incontro a questo percorso e mi lasciò in vita anche per affrontarlo. Alcune volte mi vergogno un po’ a pensare una cosa tanto assurda..Ma visto che siamo in vena di confidenze…”

Quando Howard affrontò l’ultima rampa di scale e si sistemò davanti alla porta, aveva in mente solo due cose. La prima era quella di riuscire a spiegare presto e bene, senza parole inutili. La seconda era quella di riuscire a intuire, nello stesso tempo e con le stesse modalità, quali potessero essere le reazioni alle sue parole. Erano passate poche settimane da quando si erano visti e avevano stretto amicizia, ma quel messicano irsuto dallo sguardo intelligente gli era ormai familiare. Di più: pensava potesse rappresentare qualcosa che non conosceva, ammise fra sé, poi così bene.
Era questo il seme dell’amicizia più sincera? Quello che cade trasportato dal vento in un prato attiguo, piuttosto che lontanissimo e che fiorisce però. Come mai ti aspetteresti, diventando germoglio, poi pianta, poi quercia magari. Ad Howard, calato al Barrio d New York di fretta e furia dalla sua Providence, sembrò davvero così. Sembrò davvero di potersi affidare a quelle braccia nodose, a quella cadenza ispanica, a quel periodare lento di voce roca e saccente.
Si disse che quello che aveva da dire non era cosa da poco; che quello che voleva chiedere non si poteva domandare a cuor leggero. Ma questa era la sua nuova natura e davvero non aveva più voglia di filtri, di emozioni staccate, di spine penzolanti. Voleva dire e voleva provare tutto. Nello stesso tempo. E se la risposta fosse stata un “no”, l’avrebbe accettata come si accetta un rifiuto, lasciandosi andare al rammarico.
Non importa delle proprie smorfie, non importava proprio correre il rischio di dipingersi in volto la propria delusione. Così si sistemò la giacca e bussò due volte.
“Oh –fece Paco, mentre gli si disegnava un sorriso – il mio amico ammericano. Un’altra traduzione?”
Howard gli sorrise sereno ed entrò. Riuscì bene a svincolarsi dalla tentazione di eccedere nei convenevoli, quindi si sedette in cucina e parlò, sistemando sul tavolo la lettera che aveva ricevuto solo il giorno prima.
Parlò asciutto e veloce, senza grossa emozione, cercando insieme di osservare il viso del suo interlocutore che ascoltava, peraltro, senza tradire evidenti emozioni. Il suo viso anzi, diventava una maschera impassibile come se fosse stato di cera. Quel pomeriggio d’inizio estate, diventò sera subito, quando Paco de Los Rios, terminato di ascoltare le parole del suo amico, finalmente decise di dire la sua.
“Vuoi un caffè mister Howard?” Disse, sorridendo beffardo.
“No, grazie. Ma…”
“Ma ti ho ascoltato con molta attenzione, amico. E devo dire che quello che mi chiedi è una cosa semplice, fattibile…Voglio dire: di queste cose, ne ho fatte di peggio – si mise a ridere esplicito -. Il fatto di essere messicano autorizza mezzo mondo a venire da me in cerca di aiuto. Compaesani, messicani, finti messicani, ispanici di ogni provenienza. Sembra che per il fatto di avere questa origine, parlare questa lingua, tutti siano autorizzati a venire da me…”
“Ti disturba, vero?”
“No, affatto mister Lovecraft. Ti dirò che gli unici che non aiuto sono gli assassini. Ce ne sono tanti in giro sai? …Il vantaggio di tradurre tutto per tutti: alla fine vieni a conoscenza anche di cose che non vorresti sapere. Così finisci tuo malgrado per sapere ogni cosa, magari in anticipo, di chi viene a bussare alla tua porta e si sente in diritto di farlo, solo perché parla la tua stessa lingua in un paese straniero. Beh, a me tutto questo sapere non serve, non m’importa degli errori di chi mi chiede aiuto. Solo gli assassini… Quelli mi rifiuto di aiutarli. Ho visto troppa gente morire e..Ed è vero: la morte appiattisce ogni cosa, ogni differenza, ogni ideale in chi muore. Chi uccide invece…Chi uccide potrebbe rifarlo. Non importa le motivazioni che lo hanno spinto la prima volta. Ho visto troppa gente morire e non ho fatto nulla per impedirlo. Ora basta, non voglio più essere responsabile…Agire e non fare niente è la stessa cosa”
“Ma qui, non si tratta di morte” Aggiunse Howard sereno
“Sì, non si tratta di morte e ti dirò che la cosa mi rasserena parecchio. Sarà più facile fare per te, quello che devo fare…” Poi sorrise con i suoi occhi verdi e i nervi del suo collo che si tirarono agili, alla luce della lampada a olio sul tavolo.
Il capitano fece portare dalla taverna all’angolo un ricco piatto di mole negro, quindi i due amici parlarono bevendo vino rosso e pulendosi con gli avambracci. Di tanto in tanto Paco bloccava d’istinto la propria ilarità e, mentre il segaligno Howard rimaneva paonazzo in viso per il ridere, si fermava a guardarlo silenzioso, come se volesse studiarne gli atteggiamenti. Lo faceva con una luce di compiacimento davvero sincera che solo dopo alcune ore finì con il turbare Lovecraft.
“Che hai da fissarmi ogni tanto?” Lo incalzò, serio a fatica.
“Ah, non so mister Lovecraft, me lo devi dire tu…” La mezzanotte era ormai passata da una decina di minuti. Sulla tavola i resti di una cena saporita e unta.
“Perché?” Aggiunse decelerando le risa.
“Perché non capisco se è questa la tua vera natura, o sei cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti… Tutti quei discorsi: stacco la spina di qua, stacco la spina di là…Sei diverso”
“Diverso come? Più bello?” E nel farlo si mise una buccia di banana in testa, simulando una parrucca, mentre ricominciava a ridere. Il vino aveva fatto il suo effetto.
“Più umano…Più umile Howard”
Il silenzio che seguì a quello fu qualcosa che Lovecraft non riuscì a decifrare. Fu come se di colpo cambiassero le luci sul palco e da un’illuminazione totale, si passasse a quell’occhio di bue che può fare la fortuna di qualsiasi attore, cantante o ballerino esordiente. Lo scrittore di Providence lo sentì su di sé e quindi rispose. Con una domanda.
“Sei mai stato innamorato, Paco?”
“Che questioni…” Rispose il messicano di getto, scrollando il capo di lato. Howard non ci fece caso, aveva già perso i suoi freni inibitori: “Io sì. Davvero.Tanti e tanti anni fa. Il bello… Il bello è che me lo ero dimenticato” E scoppiò a ridere come se gli fosse andato di traverso qualcosa nel bere.
“Ah..”
“Davvero, sai? Si chiamava Charlotte: mi ero dimenticato di lei”
“Ricordartelo ti ha dato una scossa eh?” Sorrise compiaciuto.
“Direi di sì. Per tutto quello che è venuto dietro…E’ stato come richiamare la catena di una nave. I ricordi sono venuti fuori anello dopo anello. Ma non mi hai risposto”
“Cosa? Ah…L’amore. Non trovi sia un argomento noioso?”
“Sì, cioè no. Lo pensavo fino a qualche giorno fa, poi…”
“Poi questa Carlotta, ti ha rifatto bollire il sangue nelle vene eh…E dov’è ora?” Fece malizioso l’uomo senza tre dita, mentre con gli opponibili della destra si accarezzava il pizzo.
“E’ morta, tanti anni fa”
“Beh, mi spiace ammericano…Ma riesce ancora a sortire dei cambiamenti su di te. E che cambiamenti. Direi che sei meglio di come ci siamo salutati e non sarà solo per la nuova lettera che hai ricevuto immagino…”
Howard bevve un altro bicchiere di cerveza, buttandolo giù come avrebbe fatto un bullo di periferia al bancone di una bettola, poi guardò dritto negli occhi il suo amico e fu come se lo sfidasse. Questa volta non scherzava…
“Tu tergiversi, signor de Los Rios. Rispondi alla mia domanda prego. Ti sei mai innamorato?”
“E’ un argomento noioso parecchio, amico mio”
“Immagino. Come può essere una storia che ti riguarda, Paco”
Ribatté ironico lo scrittore, mentre si versava da bere. Non era per il mole negro salato, era per il desiderio di aver sempre meno freni inibitori. Come una discesa consapevole verso il traguardo della sincerità vera. Quella che coincide con la liberà più profonda che un uomo possa concedersi.
Il messicano gli sorrise sobrio. Poi attaccò: “Yo soy un hombre como todos… Sono come tutti Howard. Mi sono innamorato anch’io. Certo… Claro que sì”.
Non lo faceva mai, o quasi. Intercalare la sua lingua con quell’inglese che aveva appreso così bene negli ultimi lustri. Howard notò che gli capitava, quando il suo argomentare sprofondava di un livello. Scendeva verso l’intimo nascosto. Oltre i racconti di mutilazioni, di sangue, di morti, di aiuti alla mala del Barrìo. Quelli non erano che la parte emersa del passato dell’ex capitano. Era ovvio che doveva esserci molto. Molto di più.
“Un donna? Un amore? Più amori?” Rifletté Lovecraft, mentre osservava Paco specchiarsi nel fondo del suo bicchiere. Pensò alle notti trascorse qualche settimana prima a casa del suo traduttore, a quel vociare vitale che aveva investito il corridoio di quell’abitazione nel cuore della notte. Alle risate, al rumore di tacchi alti fra le stanze, fra quei muri. Nella casa di Paco che era come un porto franco dove tutti potevano approdare, dove qualche volta ormeggiava anche qualche elegante vascello di legno dalle vele prosperose e gonfie. Destinato al padrone di quelle banchine. Cosa poteva trasportare: amore? Sesso sfrenato? Quale tipo di appagamento? Howard non lo voleva sapere per curiosità becera. No, aveva bisogno di punti di riferimento. Semplicemente.

Come poteva amare un uomo così? Che era già morto una volta e un’altra aveva ripreso a vivere. Disincantato, eppure generoso. Sobrio eppure così disposto a giocarsi tutto. Ogni volta.
“Io ero sposato – ricominciò il traduttore – . Ero sposato, quando Fierro mi fece questo. Ramona, si chiamava, o si chiama. Anche se non so che fine abbia fatto…”
Howard lo guardò come si osserva uno scrigno che, piano, si apre. Non nascose la sua curiosità, non occultò il suo stupore. Non poteva più farlo.
“Quando fui di ritorno dall’ospedale militare, avevo in mano solo una licenza che avrebbe fatto da ponte per il congedo illimitato. Così conciato non servivo più all’esercito repubblicano del Mexico, lo sapevo. Non ci rimasi male. Quello che non mi aspettavo era che i cambiamenti sarebbero arrivati così veloci nella mia vita, da non consentirmi di pensare, di prepararmi. Di pianificare anche.
Ramona era la figlia di un proprietario terriero del distretto di Guadalajara. Una femmina che sapeva riconoscere l’autorità… Quella di un padre importante, di un marito, di una divisa. Avrei dovuto capire che io non sarei stato mai più nulla di queste tre cose, per lei o per i figli che avremmo voluto. Cominciai a capirlo dall’unica volta che venne a trovarmi in ospedale durante la convalescenza. Quel giorno mi aveva chiesto di sbendarmi e di fargli vedere la mia…La mia nuova mano. Vidi il suo viso impassibile e freddo. Avrei tanto preferito che si ritraesse inorridita, invece rimase a guardarla senza toccarmi. Ferma, con i suoi occhi neri e i capelli raccolti. Credo che in quel momento smise di amarmi. Farfugliò qualche parola vuota di compassione, poi mi sorrise finta e infine mi baciò sulla fronte, prima di andarsene.
Ti giuro Howard che quel giorno mi sembrò ancora più bella…”
I due commensali si scambiarono un sorriso ormai a notte fonda. Un sorriso diseguale, scomposto in discesa. Da una parte il picco vitale di Lovecraft, dall’altra l’ilarità del traduttore che scivolava verso il basso. Da eroe sconfitto.
“Tornai da lei qualche settimana dopo, sapevo non sarebbe più stata la stessa. Così continuai a viverle accanto per qualche mese, aspettai e aspettai… La notte la sentivo sgusciare via dal nostro letto, ma non m’interessava sapere dove andava..”
Howard continuava a osservarlo dall’altro capo del tavolo. Il tasso alcolico gli impediva di assumere una posa aggraziata, ma non gli toglieva un istante la lucidità, la capacità di analisi. Non edulcorava nemmeno quel sentimento che gli raschiava dentro. Come unghia affila sulla parete di una lavagna. Di tanto in tanto soffiava impercettibilmente nelle narici e abbozzava un sorriso amaro al contempo. Come per lanciare una invisibile ciambella di salvataggio a un amico che stava annegando. Da anni stava annegando, ma senza affogare.
Paco roteò l’ennesimo cigarillo e se lo portò alle labbra. Con il solito sbuffo speziato, lo accese roteandolo alla fiamma.
“Sì, non m’importava niente. Nemmeno dei sorrisetti maliziosi dei vaccheros, come degli sguardi di compatimento e imbarazzo di suo padre. Aspettai che i tempi fossero maturi, che qualcosa mi scattasse dentro ma che non sapevo cosa potesse essere…Quella era la mia nuova vita ma, insomma…Che vita era? – l’ex capitano prese fiato, inalando tutto il fumo che ancora gli si ammassava alle labbra dopo l’ennesima boccata, poi continuò – E allora una sera, tre mesi dopo il mio ritorno, attesi che mia moglie uscisse la notte e la seguii. La vidi attraversare il piazzale del rancio e infilarsi nell’alloggiamento del capo mandriano. Un biondo ammericano chiacchierone che era arrivato a Guadalajara da poche settimane… Non mi servì vedere con i miei occhi, non m’importava chi fosse e nemmeno cosa facesse Ramona. Dentro di me avevo già deciso cosa fare..”.
Howard sentì un brivido ghiacciato che gli accarezzava la nuca e scendeva verso i glutei, come una corposa goccia di acqua gelida, scivolata giù. Dalla sua ragione, attraverso il suo intuito, fino alle proprie sconcertanti certezze.
“Paco è un assassino di coppie fedigrafe… Un uomo che aveva saputo uccidere, dunque, e che secondo le proprie parole avrebbe potuto rifarlo” Si disse.
Come aveva potuto giudicarlo così bene? Faticò a deglutire e attese, ascoltando il suo amico.

“Feci quello che mi sembrò più naturale. Stetti zitto, in attesa che lei tornasse fuori. L’aspettai e la vidi, facendomi vedere. Non feci altro, non sarebbe stato necessario. Ci guardammo come per riconoscerci alla luce di una candela, nel buio. Il bello è che ci riuscimmo…”
“L’hai uccisa vero?” Fece Lovecraft con un filo di voce, come potrebbe chiederlo un bambino.
Solo poche settimane prima questa domanda non l’avrebbe mai rivolta. Solo poche settimane prima non sarebbe rimasto lì. Ad ascoltare.
Paco sorrise e scosse il capo.
“Non l’avrei mai fatto mister Howard. Non l’avrei mai fatto…Non ebbi nemmeno l’impulso di arrabbiarmi e credo nemmeno lei di vergognarsi. Sì, ci riconoscemmo quella sera. Io non ero più il capitano de Los Rios e lei… Lei non era più mia moglie. Non ci furono parole, non ce n’era bisogno. Ci guardammo in silenzio per qualche secondo, avrei voluto scusarmi con lei e forse lei avrebbe voluto fare lo stesso con me, glielo lessi in faccia ma…Non era la vergogna per quello che aveva fatto, per il tradimento. Mi voleva chiedere scusa per non essere stata capace di accettarmi per quello che ero diventato di diverso. Un uomo nuovo, non certo migliore…Diverso. Solo”
Lo scrittore si ritrasse sullo schienale della sedia, come per tirare il fiato.
Il suo volto descrisse il suo stupore, il suo candore infinito. Il suo volto parlò a Paco, senza che la sua bocca dicesse.
“Avrei voluto – continuò il messicano - chiederle scusa per essere arrivato lì, davanti alla sua alcova, per essermi intromesso..Avrei voluto farmi perdonare per tutto quello che stava finendo fra noi e per il fatto di aver deciso di essere lì, quella notte.
Sapevo che l’essere arrivato davanti a quella porta, avrebbe rappresentato un taglio netto a tutto. Al mio passato, al mio matrimonio, alla mia vita in quell’ovatta che ormai non potevo più accettare. Erano mesi che lo sapevo. Quello fu solo il pretesto per avere la spinta ad andarmene. Fui vigliacco, me lo concessi..Pensai che me lo fossi meritato. Nel bene, nel male”.
Howard lo fissò stupito, Paco non si fermò a commentare l’atteggiamento del suo ospite. Si sforzò solo di essere più diretto.
“La mia vita, Howard, era irrimediabilmente cambiata su quel treno. Allontanare Ramona, avere la scusa per farlo…Per andarmene senza voltarmi, credo fu un atto di vanagloria e di egoismo da parte mia. So che la lasciai con un senso di colpa profondo, per come era abituata a pensare. Ma non ho potuto fare diversamente.
La mattina dopo avevo già pronta una valigia, mi feci accompagnare alla prima stazione e poi partii per gli Stati Uniti. Di Ramona non ho più saputo nulla. Lei è stata l’unica donna che ho veramente amato, ma…Ma forse sarebbe più giusto dire che ho amato prima di queste…” E agitò i tre moncherini della destra, come si ostenta un saluto a mano aperta.
Poi aggiunse, fra il serio e il ridicolo: “Amico mio, non chiedere mai a un uomo senza un pezzo del proprio corpo se ha mai amato in passato, potresti pensare di fare una domanda semplice, senza sapere cosa di complicato ti tiri addosso…”
Lovecraft rimase un istante a fissarlo e vergognandosi un po’ con se stesso. Intanto perché aveva creduto Paco capace di uccidere a sangue freddo e poi perché capì cosa nascondevano le ultime parole del suo traduttore. Sentì che c’era come un monito, una sorta di scudo spalancato davanti al messicano e rappresentato da parole tanto semplici che sapevano quasi di biasimo.
Fu come se gli avesse detto “Non pensare, solo per il fatto che sono un semplice traduttore, che la complessità non mi appartenga, che non mi appartengano le passioni, le pulsioni, le volontà...Le stesse che appartengono a chi immagina storie incredibili di personaggi immaginari”.
Poteva Paco de Los Rios avere una vita sentimentale “normale” da raccontare? No, non poteva.
Fu questa certezza che fece vergognare Howard Phillips Lovecraft: il non averla fatta propria. Non fece in tempo a dire qualcosa che avesse il suono accondiscendente delle scuse.
Paco corse in suo aiuto, lisciandosi il pizzetto brizzolato.
“Io ora non so cosa credere Howard. So che quello che ho provato è amore vero, so che è stata una cosa tanto forte e per tanti anni, che avrei potuto muovere le montagne per quello che mi batteva dentro. Ma so anche che, superato quello, c’è ben poco che possa scuotermi e muovermi nel profondo. Quindi – sorrise brevemente – per rispondere alla tua domanda, ti dirò che sì: ho amato. So cos’è l’amore, so quanto possa cambiare le persone, so quanto possa non essere riconoscibile nell’attimo, ma quanto possa rimanerti dentro nel tempo e sopravvivere a se stesso. Ho amato una sola volta ed è andata così...Alcune volte mi sforzo di pensare che forse amerò ancora, ma se ci penso adesso, a mente fredda, credo che no, non amerò più. Questa nuova vita che vivo da allora, forse non lo prevede o più semplicemente sono io che non lo prevedo… Alcune volte, poi, penso che dovrei provare a tornare da Ramona. Chissà dopo quindici anni cosa troverei, come la vedrei. E’ un pensiero che scaccio subito, mi sembrerebbe di tornare a voler vivere una vita precedente e non me lo posso permettere…Nessuno se lo può permettere”.
“Superato” Fece quindi Howard che già da tempo aveva recuperato lucidità
“Cosa?”
“Hai detto: “Superato quello”, amico mio” Rilanciò lo scrittore.
“Quindi?” Fece Paco interdetto.
“Hai detto “superato quello”, parlando dell’amore per Ramona. Ne hai parlato come fosse un ostacolo, un impedimento…”
“Non intendevo quello, puoi immaginarlo”
“Immagino che non te ne sei reso conto. Dico questo, perché mi sembra di conoscere questo modo di pensare…” Sorrise Howard questa volta.
“Non era un ostacolo, forse solo un legame in più, uno di quelli che non aveva più senso. Io ero diverso ormai, lei lo era. Rispetto al mio cambiamento…Ma forse, forse sì. Era un ostacolo anche. Qualcosa che mi avrebbe tenuto legato a un vita che non potevo più vivere…Sei bravo ammericano, lo sai?”
“No, è che ora mi sembra tutto così chiaro. Per me e alcune volte, per quelli che mi stanno intorno”
“La tua nuova vita?”
“No, è sempre la mia vita. Solo che ora la vivo, senza mutilarmi”
“Mutilarti? Ti sembra la parola giusta da usare davanti a me?” Rise Paco, agitando un’altra volta la sua destra.
“Hai capito cosa intendo”
“Ho capito, sì… Ma mettiamola in questo modo: senza nessun legame affettivo, ora sono più libero. Vivo come voglio, aiuto chi mi va di aiutare. Compreso te”.
[omissis]
“Sei strano ammericano…” Fece poi Paco, dopo qualche minuto di silenzio, dopo che si fu acceso un ennesimo cigarillo e che Howard fu andato in bagno a sciacquarsi il viso.
“..Vieni qui e mi parli di amore. Mi sembra un argomento così strano da affrontare adesso. Penso che l’amore non sia per tutti. Penso che sia qualcosa che aiuta gli uomini a crescere, a formarsi ma poi…A un certo punto, li abbandona. Quando non serve più. Andiamo poi…Pensi che un uomo di successo abbia l’istinto di amare? Coolidge per esempio? Ama sua moglie? E Villa? Il grande Pancho Villa, pensi che abbia avuto spazio per amare qualcuno? E quell’italiano…Come si chiama? Quello con il testone. Ora che è uno degli uomini più potenti del mondo, credi che abbia tempo per provare certi sentimenti?”
Fece una piccola pausa sorniona, mentre Lovecraft lo ascoltava attento.
“Io non credo – continuò -. Non credo che amare una donna, possa essere un’attività conciliabile con l’esercizio del potere, che possa convivere con il successo, o con una missione, se ce l’hai ed è per te così importante…Ti penso ora: tu scrivi dei racconti incredibili. Scrivere è la tua missione. Da quanto tempo non ami, come hai amato la tua Carlotta?”
Howard pensò a sua moglie e fu attraversato dal fremito, da un istinto di rimorso. Come un senso di colpa languido, frutto dell’inevitabile.
“La mia storia è diversa, Paco”
“E’ sempre una storia diversa, amico mio. Lo è per chi sceglie una vita diversa, non comune”
“Io non sono un uomo di successo” Sorrise sincero lo scrittore.
“Non importa che tu lo sia per gli altri. Hai una passione no? Vivi per quella”.
Lovecraft chinò il capo, pensò alle ultime parole della sua moglie ucraina, pronunciate a Cleveland.
Come suonavano ora?

"...Il tuo scrivere, Howard, è una cosa grande, io sono troppo piccola per te. Lo è il mio talento, la mia emozione che è così diversa dalla tua..."
Le aveva detto Sonia ed aveva ragione.

Poi reagì guardando Paco. “E allora tu? Tu per cosa vivi, cosa ti porta così lontano ora? Sei un uomo di successo? O che missione hai?”
“Io vivo Howard. La mia missione è quella e non ce n’è una più grande di questa. Del sopravvivere intendo. Se poi posso aiutare qualcuno, lo faccio. Non per spirito di carità – sorrise, sbuffando quasi di disprezzo – Di quella non m’importa. Aiutare le persone mi da la sensazione di essere sopravvissuto per qualcosa. Mi fa pensare che la mia presenza qui abbia una senso. In effetti non sono io ad aiutare loro, ma esattamente il contrario”
“Allora con quello che ti ho chiesto ti sto facendo un favore?”
“Beh, diciamo che i favori ce li stiamo scambiando” Sorrise acuto il messicano.

La mattina dopo Lovecraft e Paco de Los Rios si salutarono con affetto, ma senza convenevoli. Si guardarono, si strinsero la mano sobriamente, si sorrisero. Sapevano che si sarebbero rivisti presto ed avevano la certezza che ormai erano coinvolti in qualcosa di importante. Oltre lo scrivere, il tradurre, il vivere la vita degli altri. Fosse stata quella immaginaria dei mostri e degli asciutti eroi lovecraftiani, o quella in molti casi miserabile, inquieta, dei “latinos” che si affidavano alle traduzioni di Paco. Quella ora era anche la loro vicenda, il loro impegno, la loro missione. Un occasione per dare finalmente una forma concreta, materiale, alla loro esistenza. Ciascuno la riconobbe nella vita dell’altro, non pensando alla propria.
Poi Paco fece una cosa che emozionò lo scrittore di Providence: con le sue mani, toccò la destra di Howard e gli depose nel palmo aperto un foglio di carta, quindi lo guardò e gli sussurrò: “C’è il disegno che ti ho fatto l’altra volta, niente di che…”
Howard alzò il capo in segno di saluto. Paco agitò la destra con i tre moncherini.
Il barrìo di New York era assolato quel giorno. Il mento aguzzo di Lovecraft lo attraversò come a fendere l’aria, con passo deciso. La sua figura allampanata e magra, vista attraverso le finestre della casa di Paco, sembrò quasi come quella di un pistone che guizza regolare nel rispettivo cilindro. Girato l’angolo Howard aprì quel foglio di carta, vide il disegno e lesse: “L’uomo delle spine pronto a partire”
Dietro infine c’era una scritta. A Lovecraft parve come una preghiera laica:

“..Beati gli uomini che hanno bandiere e canti con cui riconoscersi nella notte, l'uno con l'altro. Quando non si vede nulla, il rumore è assordante ma sai di appartenere a qualcosa. Beato chi si può stringere al compagno quando ha paura, beato chi può confondersi in cento altri simili a lui e riposarsi sereno. Sotto la solita bandiera, ascoltando il solito canto..”

Howard rise sonoro, buttando lo sguardo verso il cielo, mentre le sue mani tenevano ancora aperto quel foglio: “…Sotto la solita bandiera, ascoltando il solito canto” Sussurrò fra sé, senza timore che qualcuno lo ascoltasse.


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