giovedì 26 marzo 2009

L'occasione della forma 15^ - Il pitale


“Quanto tempo? Quanto tempo impiegherà la notizia del maestro ad arrivare alle orecchie sbagliate?” Pensò Esteban, corrucciando la fronte quel pomeriggio. Al suo fianco il corpo morbido di Estrela pulsava docile e rosato. Di una nudità scevra dal volgare, più vicina a una bellezza divina che a qualcosa di terreno. Con la mano su un fianco della giovane donna, Esteban fissò il soffitto e non ebbe tempo di bearsi di quella mattina di passione. Destino particolare il suo. Proprio mentre la sua spinta erotica, la sua libidine navigata virava verso accenni strani, per lui inconsueti, il pensiero di un anziano lo rapiva. Ne proiettava la mente ben al di là dell’immanente fascino del sesso più travolgente. Era come il pagamento di un dazio, lo sfiorò il pensiero. Come se, ora che il suo giovane cuore cominciava a sentire il bisogno di nuova crescita, il destino dovesse portarlo lontano. Esteban non si conosceva bene, non sapeva di sé più di quanto un uomo giovane possa sapere dei suoi desideri più nascosti, pronti a emergere, dell’uomo maturo che ne prenderà il posto, dell’uomo anziano che tirerà la riga.
Si alzò nudo e sentì freddi i piedi sul marmo. Spiò ancora Antoni e lo vide dormire tranquillo, bocca aperta e mani incrociate sul ventre. Lo osservò sereno per la prima volta da ore . Ne giudicò sano il riposare in quella penombra pomeridiana e poi si ritrasse, quando Gaudì si voltò a occhi chiusi. Socchiuse la porta e tornò da Estrela. La prese ancora e fu come la prima. Una magnifica “prima” sul palcoscenico delle sue emozioni sconosciute.
Lei lo guardò, sopraffatta da quel copro agile ed esperto che pure si muoveva di un ritmo nuovo, lontano dalla pedissequa metronomìa del piacere fine a se stesso, più prossimo ad un inarcarsi, ad un flettere armonico di strumento a corda. Percezioni di donne che anche nelle più giovani, agiscono e si dispiegano molto prima che nell’uomo, nel ragazzo, nel giovinetto.
I loro sguardi trasparenti s’incrociarono una prima volta come non si fossero mai soffermati prima, ed una seconda, alle prime domande, ed una terza, alle infinite risposte.
Fu un piacere nuovo. Da non descrivere, da custodire nel cuore e nella mente

Esteban attese la notte per muoversi cauto. Uscì sbarbato e si avviò, passo svelto, col mazzo di chiavi in tasca e poca voglia di perdere tempo. Arrivò al cantiere deserto, quindi aprì i cancelli e si chiuse nell’ufficio di Gaudì. Ripetè la scena dello studio: arrotolò lucidi, impilò fogli, estrasse taccuini scarabocchiati. Sistemò tutto in una valigia e se ne andò, non prima di aver gettato uno sguardo a quel luogo. Non ebbe timore di non rivederlo. Lo giudicò bello, di quella monumentalità incompiuta che gli era sempre sfuggita, di un fascino incompleto, capì che il proprio sentire stava mutando, verso nuovi confini. Non si chiese perché. Già lo sapeva.

“Che pensi di fare Amancito?” Le chiese provocante la sua ospite, davanti a un piatto di frutta, mentre mordeva un acino d’uva bianca. “Casa è grande. Alfonso il mio maritino, tornerà chissà quando… E in ogni caso avverte, con almeno due settimane d’anticipo”
“Mi stai invitando a convivere con te?” Sussurrò sorridendo Esteban, pensando di aver colto nel segno. Colse come un ceffone.
“Ti sto invitando a non fare l’idiota” Rilanciò la donna con insuperata ironia. I suoi capelli raccolti sulla nuca, parlarono più di lei.
“C’è il mio padrone…”
“Non coglionarmi Amancito…Il tuo padrone non c’entra nulla. Che cosa intendi fare?”
“Non so. Non so dove andare”
“A me non importa nulla dei tuoi problemi Amancito –aggiunse la donna diventando seria-, ma voglio che tu sia chiaro con me. Il tuo padrone è già nella mia casa e dorme di là. Io sto parlando con te… Chi ti cerca?”
“A me? Nessuno” E aveva deviato lo sguardo
“Che stronzo” Aveva biascicato, Estrela.
“Non cercano me. Cercano lui. Cercheranno anche me solo fra qualche giorno”
“Una occasione per non fare nulla. Niente…”
“Che dici?” Chiese Esteban aggrottando le sopracciglia.
“Se ancora non ti cercano, non fare nulla. E’ chiaro. Fai le cose che fai sempre. Nessuno sa che ci conosciamo, lui non può essere qui, ma qui è al sicuro.
Anche se ancora non mi hai detto da “chi” è al sicuro.
Tu torna al lavoro, alle cose che fai ogni giorno...- rise brevemente coi suoi denti bianchissimi – Sì, anche al “Forat vermell”…Fai quello che fai sempre, torello”. E con la sua mano affusolata gli aveva stretto la coscia, fino a sfiorargli l’intimo.
“Possibile che con te, non si può fare mai le persone serie?”
“Possibile che non veda nulla di serio in tutto questo, Amancito. Tu che scappi con tuo nonno da non si sa chi e vieni a rifugiarti da me…”
“Beh, mi pare che non ti sia dispiaciuto Estrelita”
Con la velocità di un gatto che graffia, la donna gli rifilò uno schiaffone sonoro che voltò la testa a Esteban. “Vulgar canalha!” Gli sussurrò a denti stretti, durante l’operazione. “Vai fuori da casa mia! Lascia il vecchio e vai!”
“Dove vado? – Esteban l’aveva guardata cattivo – E perché dovrei lasciarti Don…” Sembrò mordersi la lingua.
“…Don?” Fece Estrela tornata maliziosa
“Ma vattene!” E si era ritratto sdegnoso al sorriso della donna.
Quella notte dormì per terra nella stanza di Antoni Gaudì col capo all’altezza del pitale laccato. Poi, poco dopo le tre del mattino, una figura esile e profumata lo prese per mano e lo condusse in quel letto caldo che ormai conosceva bene.
Lui si fece portare.

La mattina dopo, Esteban si alzò di buon’ora. Diede un bacio al gluteo esposto di Estrela e uscì. Tornò a casa a cambiarsi d’abito a tentare di riprendere una finzione di vita normale. Si ripetè che, forse, avrebbe potuto argomentare sul soccorso all’architetto anziano, riferendo di aver portato Antoni allo studio e di essersi assicurato della sua ritrovata lucidità e là di averlo lasciato solo dopo alcune ore in quella domenica pomeriggio. Avrebbe mostrato stupore, rispetto al perdurare della sua assenza e avrebbe giustificato la propria dal cantiere e dalla penombra del suo maestro, adducendo vacue spiegazioni, di non meglio precisati esami medici, con la subdola intenzione di lasciar credere all’ennesima sbronza ingiustificabile, smaltita a casa della cocotte di turno. Era il suo ruolo. Per una volta fu felice d’interpretarlo a tutto tondo.
Si disse che era strano. Per la prima volta non solo mentiva per se stesso, ma per proteggere qualcosa, qualcuno. Quelle bugie, ripetute ai capomastri del cantiere, ai funzionari della curia, agli architetti giovani, ai manovali, suonarono diverse. Meno ripugnanti forse, più difficili da reggere probabilmente. Avrebbe avuto voglia di gridare al mondo intero che l’architetto Antoni Gaudì, ikl padre di Barcellona, l’anima creativa della Catalogna era in serio pericolo, avrebbe voluto sussurrare ai vigorosi operai del cantiere che lo idolatravano, che brutta brutta gente lo stava inseguendo, che lo volevano portare a Lisbona, volevano bucargli il cervello e fargli uscire il senno.Estirpargli il genio. Minarne l’anima. Definitivamente.
Avrebbe voluto, avrebbe potuto.
Poi pensò al clamore, ai problemi che questo avrebbe comportato per il cantiere e per Antoni stesso. Tratto in salvo dai luccicanti arnesi di Egas Muniz, ma condannato a diventare un’icona. Prigioniero della sua protettiva gente, fagocitato dalla massa informe, che confonde calore con spasmo, affetto con asfissia, che legge gioia, ma ti trasmette oppressione.
Si disse, mostrandosi sbalordito per la sparizione dei progetti e delle carte allo studio e al cantiere, che l’unica strada era quella di fingere, fingere e ancora fingere. Finché avesse potuto. Finché non lo avessero scoperto. Il tempo era l’unica cosa di cui aveva veramente bisogno Antoni.
Tempo per sedimentare il collasso del suo intelletto, giorni per riprenderselo. Forse. O forse per rinascere di un nuovo intelletto. In chissà quale direzione o forma, sotto quale pulsione creativa, di quale anima cambiata, ma rimasta se stessa.
In questo credeva, mentre continuava a fingere, mentre spalancava narici nell’ufficio svuotato del creare del maestro, o spalancava gli occhi incredulo, quando i funzionari della curia la pressavano con le loro domande incessanti, ora dopo ora. O quando lo chiamarono allo studio di Antoni e dovette andarci a testa bassa, come a simulare sconcerto e stupore. I carabineros lo interrogarono sospettosi. Lui spiegò calmo, argomentò, aggiunse, indirizzò fintamente. Lucido come una croce d’argento che penzola su un petto nero.
“Io non so nulla..ero a Cadaquès..Ho problemi al fegato, ieri sono andato dal medico di famiglia a casa mia..Don Gaudì è una persona originale, tornerà…Tornerà ne sono sicuro..” .
Uscendo dallo studio dell’architetto di Dio, non ebbe neanche il minimo dubbio. S’indirizzò al suo disordinato appartamento, accendendosi un mozzo. Camminò piano all’imbrunire e non si voltò mai nelle strade affollate di gente.
Divagò con qualche conoscente al passaggio sulla rambla, contattò amici comodamente sistemati ai tavolini in attesa della notte, rimandò a discorsi futili ed evanescenti per quella sera.Visse qualche ora di una vita che non era più la sua. Dopo cena entrò a casa, si sciacquò il viso e si buttò sul letto. In attesa.
Prima di uscire, aprì la scatola del “piacere fine a se stesso” e ne trasse i documenti di Gaudì, infilandoseli nella tasca interna del gessato grigio, quindi uscì di nuovo.
A metà strada si fermò nuovamente, con uno scatto. Si chinò e si allacciò una scarpa. Sorrise spaventato per un attimo. Si fece forza. Ritrovò la calma.

Quel martedì sera “El Forat Vermell” offriva danze di uomini travestiti da donna. Esteban si buttò il quel fumoso agitarsi di teste come pistoni e quasi subito, allontanatosi, vide il pesante portone dal quale era entrato pochi secondi prima, riaprirsi di nuovo. L’agitarsi della massa lasciva gli celò la vista ai visi.
Afferrò il primo bicchiere a tiro, scippandolo alla mano di una gentildonna equivoca e se lo bevve, avendo cura di farsi cadere più di una goccia sul costosissimo abito. Ripeté altre volte il giochetto, mentre svenevole e sgusciante salutava amici, conoscenti ed esperienze sessuali di una notte.
Dopo un paio d’ore di danze ritmate, di chiacchiere surreali, di hashish non inspirato, barcollando spinse via un suo amico dal muro di mattoni rossi e, per un attimo smise di fingere.
Il suo occhio destro schivò il suo abituale vedere e si poggiò dove doveva. Mentre la musica assordante della piccola orchestra dettava i tempi del suo scrutare, le “danzatrici” accudivano la folla vociante e da quell’ibrido, irreale microcosmo notturno, emergevano un paio di figure sorridenti, di uomo e di donna, troppo canonicamente vestite in quel piccolo mondo, dove la normalità dell’abbigliarsi, sfumava quasi sempre nell’astrusità del singolo dettaglio.
Si levò barcollante, ondeggiò con l’ennesimo bicchiere in mano e si poggiò su uno di quegli uomini vestiti da donna, offrì la vista della sua lingua che accarezzava quel lobo maschile, mentre con la destra gli infilò qualcosa nella mano e con la bocca sussurrò parole sorridenti. Poi si allontanò scansando e barcollando. Ancora.
Pochi minuti dopo il gruppetto delle ragazze dal petto villoso si buttò sui due ospiti inattesi del “Forat Vermell”, fra smancerie, gonne alzate e mani dappertutto, Esteban infilò la porta, volò sulle due rampe di scale e si dileguò correndo nella notte di Barcellona.

Mezz’ora dopo giunse veloce davanti al portone di Estrela che il suo fiato era ormai un ritmo regolare di doppi respiri.
“Ola Amancito… - lo guardò Estrela, malgrado le parole irriverenti, il suo tono era diverso – Che hai? Hai fatto una corsa perché ti mancavo? Oppure avevi dimenticato questi?” E con la mano aveva estratto dalla tasca della veste una coppia di condom color carne.
Esteban la guardò spiazzato, ancora senza il suo fiato. I suoi occhi lanciarono un “Sei proprio una stronza” che cadde nel vuoto. Estrela gli sia avvicinò silenziosa e quindi lo prese per mano.
“Vieni con me, tesoro. Ti faccio vedere una cosa”
Nel lungo corridoio, la donna cominciò a raccontargli.
“Questa mattina sono entrata nella stanza di tuo nonno. L’ho trovato come l’ho conosciuto. Con quello sguardo strano, perso. Era seduto sul letto. Gli ho fatto bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ di pane. Lui ha mangiato, senza parlare. Ancora”.
Estrela si fermò davanti alla porta chiusa della stanza di Antoni e continuò a raccontare, senza aprirla: “L’ho accompagnato in bagno e l’ho lasciato solo. Nella sua camera c’era puzza. Ho aperto le finestre e ho fatto cambiare aria. Prima che Antoni ci tornasse, poi, ho sistemato dei fiori profumati in un vaso…” Si fermò.
Esteban la osservò, stupito per tutti questi dettagli.
“…Poi lui l’ho fatto tornare nella camera e l’ho lasciato lì. Ho fatto tutto io, ho mandato via le due persone che mi lavorano in casa. Dopo qualche ora sono tornata per dargli il pranzo..”
“Brava – fece Esteban – come una perfetta padrona di casa”
“Mi coglioni eh…Amancito. Ridi. Ridi di questo” E aprì la porta

Antoni Gaudì era seduto sul letto con il suo sguardo perso. Intorno ai suoi piedi, fiori sbucciati, petali consunti e sfruttati. Erano le rose di tre colori diversi, le calle color latte, le mimose gialle della composizione variegata con la quale Estrela aveva voluto aggraziare la presenza dell’anziano in quella camera fredda. Fiori dilaniati, desfogliati, calpestati secondo un utilizzo che sfuggì a Esteban e che lo fece sconcertare. La luce delle due lampade nella camera illuminavano quello che una volta era stato un genio che aveva sbranato dei fiori. Sbranato dei fiori?
“Che c’è Amancito? Ti è cascata la mascella?” Incalzò antipatica Estrela che si prendeva la sua rivincita e che attese, godendosi un po’ sadica un po’ intenerita, lo spettacolo del suo giovane amante che prese a passeggiare cauto nella stanza, portandosi una mano a grattarsi la testa brillantinata.
Poi, quando la ragazza ne ebbe abbastanza di quello spettacolo astruso e ridicolo, proruppe di nuovo: “E ancora non hai visto il meglio…”.
Si avvicinò al letto, si chinò e ne trasse un oggetto.
“Tieni Amancito. Questo una volta era un pitale da notte. Ora dimmi tu: cos’è?…Ma pensa bene a cosa dirmi. Prenditi il tuo tempo, qui dentro…E pensa bene a cosa dirmi” Poi uscì, lasciandolo stranito con quello che una volta era un pitale da notte.

Esteban si sedette sul letto, con la lentezza di un vecchio artritico. Poco più in là del suo maestro, vicino a una delle lampade. Quindi, con la mano destra a coppa, sollevò l’oggetto che le aveva dato Estrela. La forma era rimasta quella di un pitale, ma solo quella.
Quella che una volta era una laccatura asettica e industriale, ora era uno scrigno aperto d’inconcepibile bellezza. Mosaico indescrivibile di colori vergati e placche rettangolari di origine organica e floreale a stilizzare forme animalesche di ogni genere, nella miniaturizzazione di curve e rette diversamente combinate. Dominante il tema della salamandra dal corpo multicolore, dall’espressione priva di aggressività ed in grado da sola di dare un’impronta al senso del disegno. Una forma mutuata, come artista che ripropone se stesso, dal Parco Guell di Barcellona, rimastane simbolo incontrastato. Accanto a lei meduse, esseri umani stilizzati si dispiegavano nell’intorno, come una danza di colori e messaggi onirici dall’incomprensibile senso. Se non quello dell’esplosione della bellezza naturale. Che si decomponeva e ricomponeva senza artifici umani, se non quello dell’idea artistica con la chimica essenziale dell’urina e della saliva.
Esteban la osservò con cura portandola più vicina a una fonte di luce, quindi si domandò come avesse fatto il suo maestro a portare concretamente a termine quel prodigio artistico.
Ripose il pitale per terra e alzò le braccia di Antoni rivoltandogli, poi, i palmi delle mani, neri come la pece, con le impronte delle dita che assumevano ciascuna una tonalità. Dieci dita, dieci colori.
Quindi si fece prono su di lui e gli osservò le labbra, le pizzicò, le aprì e vide il resto del macero di fiori fra i suoi denti. Mistura che si trae dalla natura, che in organo umano si lavora e trasforma. E che ritorna al mondo, in forma di colore.
Alla vicinanza della lampada i primi petali squadrati, disposti a mosaico cominciarono a staccarsi per il calore. Esteban stette in silenzio, attonito, ad osservarne l’inevitabile degradarsi.
Era quella, si disse che le parole gli vennero chissà da dove, arte che è vera ascesa. Che si disgrega e diventa nulla solo nel momento in cui è vista. Da occhio impuro.

domenica 22 marzo 2009

L'occasione della forma 14^ - Non a Lisbona


Esteban accavallò le gambe con grazia, poi giunse le mani e si portò i due indici alle labbra, inumidendoli leggermente, come a rendere più reali i suoi pensieri.
Davanti a lui Antoni Gaudì era seduto sul suo letto, schiena leggermente curva, mani unite fra le cosce, sguardo nel vuoto. Dimesso, come lo aveva trovato poche ore prima; sfatto nell’abito e nel viso sporco. Nella barba arruffata e oblunga.
In due ore aveva cercato di estorcergli qualche parola di riferimento, solo qualche cenno verbale che gli potesse annunciare il ritorno nel suo corpo. Aveva insistito sussurrando, ripetuto ad alta voce. Ma nulla.
Così Gaudì stava lì da un po’, come vegetale. Altro da sé, dal suo genio. Ogni tanto alzava il capo e si guardava intorno disorientato, prima di tornare ad accucciarsi in quello che sembrava un vuoto assoluto.
Esteban lo aveva portato direttamente nel suo piccolo appartamento, senza passare dallo studio, senza fare tappa nella casa del suo maestro, nella quale, giudicò, sarebbe andato da solo. Più tardi, magari la notte, a raccattare qualche abito di Antoni, i suoi schizzi domestici. Poi, aveva pensato frenetico, sarebbe andato al cantiere e avrebbe recuperato tutti i lucidi, i libri di calcolo e di progettazione. Intanto aveva sottratto dal pastrano di Antoni il suo taccuino, i suoi documenti e i pochi oggetti personali e li aveva riposti in una scatola di legno sotto il mobile, quella dove c’erano “le protezioni” al suo piacere. Infilate ordinatamente una sopra l’altra “ a mattoncini” e pronte all’uso.
Compiute queste operazioni si era seduto. Luccicante nella sua lucidità. Freddo come ferro al gelo.

“Bene signor Labruna – gli aveva fatto il prelato segaligno, dalla pesante croce d’argento al collo – i suoi resoconti sono abbastanza dettagliati. Nondimeno qualcosa ci sfugge Labruna. Ci sono..C’è qualche discrepanza con altre notizie che abbiamo noi. E francamente sono sconcertanti.”
“Discrepanza. Ma…”
“Discrepanza, Labruna. Non penserà davvero che un compito tanto delicato per la curia, per la Catalogna sia stato affidato solo a lei?” Qualche mese prima, durante uno dei soliti colloqui mensili, sempre più rapporti militari, Esteban era stato incalzato, messo alle strette.
“Da solo no. Ma io riporto quello che so e che ho visto…”
“Forse non vede abbastanza. Oppure forse non ha sposato questa causa con la necessaria concentrazione. Noi ci rendiamo conto che è un compito non facile, ma pensiamo anche ci voglia tutta la sua attenzione. Un attenzione che fino ad ora non ha messo”.
“Ripeto Eminenza, io…”
“Lei, Labruna, ci deve portare fatti. Ci deve dire come mai il cantiere è ancora così indietro, i lavori non procedono. Gli operai, i manovali – il tono dell’uomo di chiesa si era fatto arrogante – restano giorni a spostare materiali, i materiali che noi paghiamo, nel tempo che noi paghiamo…Che i fedeli catalani ci hanno affidato. Lei dice e non dice. Spiega e non ci fa capire. Abbozza, omette, distoglie. Finirà…”
Esteban aveva guardato il prete dritto negli occhi, come con una vampata di ira repressa e il prelato aveva attenuato il tono
“…Finirà che dovremo togliere i lavori a Don Gaudì, a dispetto di Barcellona e della sua gente. Finirà che dovremo toglierle il suo incarico”
“Non lo potete fare” Aveva fatto timido
“Non lo possiamo fare? Non possiamo? Guardi…”
L’uomo vestito di nero era tornato, nervoso, dietro la sua scrivania di mogano, aveva aperto il cassetto e ne aveva tratto qualche carta stropicciata, cominciando a leggere vermiglio:
“Antoni Gaudì resta sedici ore…SEDICI ORE a osservare un arco del lato est…Antoni Gaudì parla di abbattere e sbancare parte della navata ovest…Antoni Gaudì, parla di alzare pareti centrali fra le navate…E poi ancora: Antoni Gaudì si trattiene al cantiere fino a notte inoltrata…Le basta?…Mi spieghi ora cosa si può vedere LA NOTTE in un cantiere? Me lo spieghi. E mi spieghi anche perché queste note non ce le ha portate anche lei”
Esteban serrò i pugni. Avrebbe voluto prenderlo per il collo e schiacciarlo al muro, avrebbe voluto infilargli due dita sotto il mento e impedire a quella lingua schifosa di roteare in quel periodare vomitevole, per orecchie cristiane.
Avrebbe voluto gridargli in faccia. Una volta. Per tutte:
“IO NON SONO UN VERME. IO NON SONO UNA SPIA. IO AMO QUEL UOMO…
Che ha in sé il mistero della natura mutevole. Della forma canonizzata in nuovi parametri dettati da Dio. Che abbatte barriere umane ed edifica misure divine. Che vale una città intera, composta da tanti uomini. Tanti uomini piccoli e ignari. Come me. Come te, che sei una bestia immonda”.
Non disse nulla di tutto questo. Fece un unico respiro che fu percepito come doppio, d’asmatico.
Fu invece un respiro che svoltò tutto.
“E’ vero. Eminenza. Ha ragione”
“Lo so che ho ragione. Lo so perfettamente. Per questo voglio dirle una cosa: ho qui alcuni dei suoi ultimi conti. Vedo che le sue abitudini libertine non l’abbandonano Labruna…Neanche grazie alla frequentazione con Don Gaudì. Se suo padre la vedesse…- fece un sorriso viscido e appiccicoso che rimase attaccato a Esteban - Deve soldi ai locali più prestigiosi di Barcellona. Ristoranti, atelier di moda, c’è perfino un negozio di articoli musicali. Lei compra dischi e grammofoni o li regala Labruna…Ma non ascolta la musica che vogliamo noi.
Questi conti sono nostri. Adesso. I titolari sono fedeli che accettano ben volentieri di differire i pagamenti se noi lo chiediamo. E abbiamo intenzione di chiederlo. Ogni due mesi, come oggi…”
Esteban sorrise di gratitudine e spalancò gli occhi stupito.
E imbeccò, candido: “Don Gaudì è amatissimo dalla gente. Non passa giorno che non arrivi qualcuno a portargli regali, ex voto per il cantiere, mangiare…”
“Barcellona è una città dal grande cuore – aggiunse, tornato calmo, l’uomo di chiesa -. Un cuore talmente grande che può portarla alla rovina. Nei costumi e nella fede. Il particolare di cui ci sta riferendo, ci è noto da anni. E sappiamo anche che ultimamente è aumentato questo via vai, mentre i nostri lavori.. I nostri lavori sono fermi. Non si sono spostati di una virgola negli ultimi sei mesi.
Antoni Gaudì è invecchiato, è malato, è infermo nella mente. Questo è un danno che non ci possiamo permettere…”
Il prete deglutì dalla rabbia e si sedette alla sua scrivania, poi trasse una penna da un cassetto e la poggiò sul tavolo, prima di ricominciare a parlare.
“Stiamo raccogliendo documentazione su di lui, per capire di che origine è la sua assenza, il suo rallentare. Ormai è che chiaro che l’architetto ha bisogno di cure. In ogni caso non è più in grado di portare avanti il suo lavoro, la sua missione. Che è la nostra missione”
“E come posso aiutarvi meglio?” Chiese timidamente Labruna
“Ci servono prove. Prove inconfutabili della sua pazzia. Deve portarci prove! Il nostro accordo iniziale è ancora valido. In più ci sono questi.. Questi conti. Li possiamo estinguere tutti. Ci porti qualcosa di concreto”
“Antoni Gaudì è amato dalla gente, eminenza. Non si può allontanare dalla sua opera, la gente di Barcellona non lo approverebbe…Non potrà mai accettarlo”
“Non si può? Si deve!…Eppoi lo faremo curare.E’ già tutto predisposto per lui. Lo faremo portare a Lisbona. Lì il dottor Egas Moniz lo curerà coi suoi nuovi metodi chirurgici. All’Università di Lisbona sono all’avanguardia in queste cose. Barcellona…La Catalogna capirà. Capirà perché deve capire. Non c’è bisogno di santi viventi in questa città. C’è bisogno di fedeli che facciano il loro dovere, che siano in grado di farlo. Il povero Gaudì non lo è più”
Esteban guardò la croce argentea penzolare sul petto dell’uomo. La osservò attentamente, mentre il suo sguardo si fece feritoia.
Poi puntò, sereno, sull’eminenza e abbozzò un sorriso, avvicinandosi.
“Grazie di tutto. Sempre al vostro servizio” E si chinò baciando la mano ossuta del prete.
Nel prendere congedo, balbettò un “Presto e bene” di variegata formula
La sera stessa, scoprì sulla rambla, interrogando un suo amico medico, di che natura fossero le attività sperimentali di questo Egas Moniz.
“Oh Esteban – gli rispose l’amico, mezzo intontito dalla cerveza – Che nomi mi fai? Mi parli di lobotomia in una notte come questa? Pensa a divertirti”.
Quella notte Esteban Labruna, non bevve nulla. Si divincolo dall’abbraccio lascivo della sua compagnia e andò sotto lo studio del suo maestro. Stette lì, al buio, appoggiato a una colonna davanti al palazzo, osservando la luce provenirne dalle finestre, fino a quando non si spensero.
Non aveva più desideri, nemmeno l’hashish che aveva fumato solitario in quella notte d’inverno, poté attenuare quel senso di determinazione che chissà da quanto, inespresso e latente, si dibatteva dentro di lui. Una determinazione esondante, che aveva in sé il senso del trascinare via ogni pulsione diversa da quella che lo aveva condotto lì. Come fiume che si distende e fa sua terra che non dovrebbe appartenergli, incurante di argini stabiliti dal comune senso del comportarsi, del rischiare, dell’emozionarsi.

Osservò il suo maestro in quella posizione, si alzò, gli mise le mani sul capo, scrutando attentamente la sua nuca, la sua cute, l’incavo dei suoi occhi. Con una dolcezza infinita, mentre il suo sguardo scorreva veloce su ogni particolare della sua testa. Antoni si lasciò fare tutto, come fosse una pianta grassa. Il giovane Labruna quindi espirò.
“Dio ti ringrazio. Nessuno lo ha toccato” E strinse la testa dell’anziano al suo petto pieno di vigore.

Si recò allo studio a notte fonda, come un ladro sul proprio posto di lavoro. Arrotolò lucidi, impilò disegni, raccolse carte e documenti. Quindi si avvicinò alla cassaforte e trasse dal taschino del panciotto un foglietto che aveva preso ad Antonì. Fece scattare la combinazione.
Poi tornò a casa e lo ritrovò esattamente com’era. Spogliò il suo maestro, lo lavò accuratamente, gli mise delle garze all’altezza delle ginocchia, imbevendole di tintura di iodio. Quindi attese che il liquido si asciugasse e lo rivestì, piano, di abiti puliti, prelevati allo studio. Fece un fagotto con quelli vecchi.

Alle prime luci di un alba due uomini sottobraccio, uno giovane alto, dal baffetto virtuoso, l’altro anziano e dalla folta barba bianca, attraversarono a piedi parte della città. Sconosciuti alla vista dei netturbini, dei panificatori, dei carretti di frutta e del profumo di un’estate che si annunciava, di lì a poche settimane, di un caldo che ti faceva stare bene.
Esteban in quella lunga passeggiata, dopo aver gettato in un cassone i vestiti sporchi di Antoni, cominciò a parlare al suo maestro. Mentre Don Gaudì lo assecondava nel passo, cinto alla vita dal suo abbraccio, con lo sguardo a terra.
“Don Gaudì ritorni in sé, la prego…Torni con me. Si appoggi a me, si serva di me”. Non c’era lamento, solo parole
Sfilarono poco prima dell’alba piena, davanti al cantiere. Esteban si fermò un istante e giudicò sereno la maestosità di quell’opera che appariva quasi completa, nella prospettiva del loro passaggio, in quello nuovo gioco di luci albeggianti. Una prospettiva che lo emozionò forse per la prima volta, da quando l’aveva vista, da quando poi, viscido, si era incollato alle terga del suo geniale padrone. Antoni sollevò lo sguardo assente, solo per un istante. Quindi ricadde nel suo mondo.
Esteban diede uno strattone impercettibile, come ad aumentare la velocità del passo. Don Gaudì lo assecondò come un sacco vuoto.
Un’ora dopo, mentre le strade ricominciavano a riempirsi, Labruna picchiò più volte la gorgone di un palazzo dalla gradevole facciata liberty. Attese e sentì poi una finestra aprirsi. Alzò lo sguardo e vide una mano di donna richiudere i battenti. Attese ancora.
“Già mi cerchi?” Aveva riso, la giovane donna al di là del portone mentre stava aprendo con sferragliare di serrature
“E dimmi un po’ – aveva aggiunto prima di spalancare la propria vista – sono io che ho sbagliato a dirti dove abitavo l’altra sera? Oppure sei tu che non sei mai sazio…”
L’ultima frase era caduta attonita e sconcertata alla vista della donna che si era trovato davanti il suo amante di una notte, con un vecchio sottobraccio. Poi subito si era ripresa, ironica e ficcante.
“Carino… Ma non ti sembra un po’ presto farmi conoscere tuo padre?”
“Estrela, mi serve il tuo aiuto”
“Amancito. Spero che tu non abbia creato soverchie illusioni in questo signore…Certe cose vengono bene solo in due”
“Eddai…”
La donna, moglie portoghese di un capitano di lungo corso andaluso che non c’era mai, mente vivace e irriverente, spalancò la porta che inghiotti nel portone i due. Prima di chiedere di Antoni, nell’atrio Estrela squadrò da capo a piedi Esteban. Il panciotto sopra una maglia bianca a girocollo, una giacca nera sformata, il capello in piedi, un accenno di barba sfatta.
“Che ti è successo? Te l’ho fatto io questo effetto, oppure è che già ti manco?” Sorrise beffarda, che aveva già capito che aiuto fosse venuto a pietre il suo amante.
Esteban le spiegò, tacendone il nome, che il suo padrone era in fuga. Fuggiva, dopo un tracollo emozionale, da persone importanti. Pericolose per lui. Manco a dirlo gli serviva un riparo, un alloggio sicuro, per almeno un paio di giorni. In attesa di sistemare le cose.
Estrela lo guardò seria per la prima volta e giudicò forse in un istante che per una volta potevano essere quelle le emozioni giuste per lei. Forse pensò che Don Gaudì fosse in fuga dalla legge, da un tracollo sì, ma finanziario. Non ebbe importanza. Esteban le piaceva, il vecchio con lui le incuteva tenerezza, era già lunedì mattina e il fine settimana successivo era ancora così lontano. Per altre emozioni. Così fece un segno col capo ai due, come a dire: “Salite con me”
Nel farlo diede sollievo al giovane Labruna che poté permettersi di notare la vestaglia di Estrela e il suo bellissimo decolté. Salendo le scale, l’ondeggiare dei suoi fianchi, il suo voltarsi solare non rasserenarono Esteban, ma per lui fu come sentire un profumo amico.
Antoni fu sistemato in una delle tante stanze vuote della casa. In una camera accogliente, ma fredda. Esteban stette un po’ con lui, lo fece stendere sul letto e gli levò le scarpe. Poi si passò una mano fra i capelli appiccicati e si sentì stanco e affamato.
Estrela, lo spiò dalla porta e quando lui la vide, gli sorrise con i suoi occhi tagliati all’insù e le sue guance rosa di prima mattina.
“Vieni Amancito” Le fece abbracciandolo
“Esteban…Mi chiamo Esteban” Sussurrò lui
“Io Estrela. Continuo a chiamarmi Estrela”. Lo prese per mano e insieme scivolarono in camera da letto. Lui non sentì più fame ne stanchezza.

giovedì 19 marzo 2009

L'occasione della forma 13^ - Derecha...Izquierda


La mattina dopo Howard fu in piedi di buon ora. Si vestì, effettuò la solita operazione alle sue unghie che si curò anche di limare leggermente, una volta assicuratosi un colpo di barba. Salutò Paco con una stretta calorosa, inusuale per lo scrittore e quindi si vide consegnare due fogli scritti a mano. Era la lettera per Antoni tradotta in spagnolo. Quelle poche righe con cui gli comunicava tutto il suo stupore, la sua gioia e la sua ferrea volontà di accettare quell’invito a Barcellona. Paco gli fece un ultimo cenno repentino con la testa, sulla rampa delle scale. Un su e giù col capo d’inequivocabile e promettente origine amicale. Lovecraft rispose con un sorriso della sua bocca sottile e poi si tuffò nel vociare del “Barrio” di New York, entrò nella prima drogheria svoltato l’angolo e acquistò busta e bolli per l’affrancatura. Imbucò la lettera tenendola come il “Santo Graal” pochi passi più in là.
Quindi passeggiò per le vie di quella “città nella città”, ma il suo sguardo fu più indulgente, nei confronti del caos sudamericano che vi regnava, verso la sporcizia e il degradarsi delle facciate in vago stile coloniale. Ascoltò le lingue in quella passeggiata e giudicò di aver incrociato non meno di cinque idiomi diversi fra quelle vie. Lo spagnolo dominava nella parlata veloce dei cubani e dei dominicani, regalando un’impronta caraibica a quello spicchio di New York, che si arrotondava velocizzandosi, mentre si adagiava sul portoghese degli immigrati brasiliani. Gruppetti di ragazzini, si stupì scoprendolo, avevano poi gettato dei ponti fra le due lingue, come dei trait d’union lessicali fra le due parlate iberiche. E finivano per usare termini che Howard continuava a non conoscere, ma che erano la fusione musicale dei due periodare. Non c’era dubbio.
Era un mondo curioso, dove i molti messicani facevano squadra a sé e dove non c’era spazio, si capiva benissimo, per altre razze. Irlandesi o italiane che fossero. Di questi ultimi, giudicò i latino americani come una evoluzione più accettabile, più addolcita. Senza vestiti dai colori sgargianti, senza volgare gesticolare, senza sopracciglia ombrose e fronti brachitipe. “La differenza - si disse - è che un gesto generoso di quelli, può nascondere fosche intenzioni, mentre al Barrio quello che appaiono, sono”.
In generale ammirava le lingue neolatine. Tutte, indistintamente e, anzi, ne invidiava l’articolazione lessicale, quel vocabolario variegato e sfaccettato che la sua lingua, invece, riproponeva ridotto, asciugato. Fraintendendo ed essendo frainteso. “E’ come – si disse, seduto sulla panchina di un parco – avere infinite possibilità in più di spiegarsi, di argomentare, di descrivere, senza ricorrere alla ripetitività in alcuni casi sconcertante della lingua inglese”. Invidiò per questo il suo nuovo amico De Los Rios. Invidiò la sua capacità di unire e disunire le due lingue, il suo cesellare frasi spagnole in mosaici di lingua inglese. Rendendosi demiurgo di un nuovo, personalissimo ed esclusivo modo di spiegarsi. Probabilmente era vero: Paco non era un poeta, ma un ingegnere del periodare. Un uomo che gettava ponti e fondamenta per idiomi e fra idiomi. Come un capomastro di una possibile torre di babele. Si scoprì fortunato ad averlo conosciuto nel momento in cui il suo percorso faceva genuflessa sosta davanti al genio, tutto catalano, di Gaudì. Una sosta che sperava più lunga possibile.
Ai confini del Barrio, mentre s’indirizzava verso la prima fermata agibile della metro newyorchese, fu poi testimone di una scena che gli avrebbe fatto cambiare percorso, intenzioni. Osservò sulla rampa delle scale sconnesse di un palazzo mal tenuto, un giovane padre con le gambe aperte a rinchiudere protettivo il suo bambino creolo.
Non capì che cosa lo attrasse, forse il candore della scena, forse il profumo del fiorista accanto, più probabilmente la voce di un papà in pantaloncini corti che insegnava parole al figlio “Derecha…Izquierda…” E poi ancora “Derecha…Izquierda..” Il bimbo di forse un anno, lo guardava stranito, come a volergli dire “Non scocciarmi babbo, è troppo presto”, mentre il papà poco più che ventenne, in canottiera, gli tratteneva le manine, allargandole e chiudendole secondo la posa ritmica di ““Derecha…Izquierda…Derecha…Izquierda”. Alla quinta volta il bimbo era prorotto in un pianto di spiegazione evidente. Lontano dalla sofferenza, più vicino all’assillo. Il padre lo aveva tirato su con le due mani e prima di portarlo a sedere sulla sua coscia levigata, aveva portato il suo piccolo musetto sudamericano alle sue labbra, mordendolo con quelle. Come se avesse voluto riassumere tutti i baci del mondo in un gesto solo.
Un gesto che trovò Lovecraft emozionato e, pungente, tornò quel pensiero. Si disse che trentasei anni cominciavano a essere troppi per avere un figlio e si trovò mille giustificazioni. Si disse del suo lavoro, si disse delle donne, quelle poche, e pure sbagliate, ritornò sull’inadeguatezza di Sonia. Sulla sua sterilità emozionale, sul fatto che avesse sette anni più di lui. Un’età improponibile.
Pensò poi di trattenere i pensieri più fendenti, arginandoli con i “Come sarebbe stato?…Che viso avrebbe avuto?…Che sogni avrebbe fatto?…” Le solite domande che si fanno gli uomini e le donne in vena di malinconie. Ma questa volta quella non c’entrava nulla. Howard lo sapeva.
Che carne avrebbero avuto i suoi figli, e che lingua, e che voglia di vivere, lui, si disse davanti alla fermata che s’infossava nella metro, lui non aveva davvero voluto saperlo.
Aveva schivato il colpo come fa un pugile già abbastanza suonato prima di salire sul ring. Che non ha forze per picchiare duro e ne cuore, ma solo agilità per schivare “Destra sinistra…destra sinistra…”. Alla fine ce l’aveva fatta. Il suo tempo stava scadendo, non aveva preso un pugno che fosse uno. Era intatto nella sua inutilità genitrice
“Destra..sinistra…destra..sinistra” aveva sgambettato nella metro e aveva deciso di dirigersi alla stazione centrale e senza saperlo aveva gettato lui un ponte col suo passato.

“Che cosa fai?” Aveva chiesto Sonia, appoggiata alla sua spalla, ormai più di quattro anni prima
Il treno era affollato e fumoso. Avevano trovato posto, solo a fatica, seduti sui gradini del vano borse. Pigiati, stretti, innamorati.
C’erano i progetti, c’era l’amore, c’era la passione.
“Niente…Ti tocco il braccio” Gli aveva detto Howard sorridente, mentre con un dito accarezzava quella pelle bianchissima, ancora tonica sulle braccia e sul viso.
Eddai…”
“Lasciami fare –aveva steso il suo ridere lo scrittore – voglio vedere, sentire che carne avranno i miei figli”
E su quello sguardo si era steso buio, come un velo di tristezza, di equivoci mai chiariti, mentre quell’idillio di serenità lasciava il posto a un’assenza di parole che fecero male subito. A entrambi.
Era stata quella l’unica volta che Howard ci aveva creduto, mentre il suo credere si spegneva per il fatto stesso di essersi acceso.
“Voglio sentire che carne avranno i miei figli”

Staccò il biglietto per Cleveland e si immerse nella lettura di altre bozze di racconti.
Quello lo faceva stare bene, lo faceva pensare senza pensare, rendeva altro da sé tutta la realtà che lo circondava. Rendeva più semplice lo staccare le spine, senza accorgersi che gli veniva sempre più facile. Niente sensi, nessuna percezione, solo emozione. Quella che viene da dentro e che ti permette di raggiungere vette inesplorate di originalità, di mirabolante complessità estetica.
Era già stato abbastanza per lui, compiere il gesto intenso e istintivo, di decidere per quella tappa. Per quella giornata non ci sarebbero stati altri contatti con la realtà, si poteva, si doveva progettare, scrivere, emozionarsi. Da soli, da dentro, come anfibio ermafrodita che ha in sé entrambi i semi della procreazione. E si feconda da solo. Come essere che basta a se stesso. Alla sua specie.
Viaggiò di notte e scrisse alla luce della sua piccola lampada portatile nella carrozza vuota.
Progettò di Cthulhu e della sua progenie, abbozzò altri racconti, gettò la sua immaginazione al di là di qualsiasi ostacolo. Si fermò sulle forme animalesche. Aggirò, saltò, rimandò. Come setaccio di cercatore d’oro. Il suo periodare si spinse sull’azione, sul dialogo riportato che non amava, indugiò sulle descrizioni mostruose, come inusuale blocco al suo creare.
Non ebbe paura di aver smarrito il filo, semplicemente omise e omise ancora. Come bimbo che scarta la verdura nel piatto e infilza la forchetta nel trancio di pollo arrosto.
Nessuna madre degli scrittori allungò uno scappellotto su di lui.
Dormì tre ore, prima di giungere a destinazione.

La sua destinazione era uno stanzone grande, diviso dal vano entrata da un bancone di legno. Al di là del quale una fila lunghissima di scrivanie identiche, confondeva la vista. Se non fosse stato per il movimento femmineo che l’animava, Howard avrebbe giudicato che fosse un carcere per scrittrici di chissà quale attitudine. Prone sulle scrivanie, buttando l’occhio sui fogli accanto, donne sobriamente vestite battevano continue sui tasti delle “Remington”. Sagome inconfondibili queste ultime, per uno come Lovecraft.
Chiese di Sonia, attese qualche istante e da una delle file di destra, la sua volitiva sposa, occhialetti al naso, si alzò inconfondibile. Sembrava non invecchiasse mai. Lo pensò ancora una volta vedendola avanzare verso di lui, con il suo sguardo altero, pieno di dignità.
“Ciao Howard”
“Ciao…Sono venuto a farti un saluto”
Dopo aver parlottato, decisa, con l’anziano capoufficio, Sonia Greene raccolse la sua borsa e uscì con Howard.
“Allora, dimmi?” Incalzò dolcemente, eppure aggressiva, facendo capire da subito a suo marito che, per quell’unica volta, sarebbe stata lei a condurre il rapporto. Lei avrebbe detto, lei avrebbe spiegato.
“ Volevo…Volevo parlarti. Non si è detto nulla di questa decisione che hai preso. Volevo capire”
L’aria era fresca, il lungolago di Cleveland era animato da un bel sole.
“Tu vuoi capire? –sorrise senza ironia – E che c’è da capire Howard? I miei cappelli non si vendevano, non sono rientrata coi creditori e ho chiuso. Me ne sono andata. Tutto qui”
“Sì, ma noi…”
“Noi niente, Howard. Non esiste un “noi”. Non è mai esistito”. Il suo viso era sereno, come le sue parole, a dispetto di quelle. “Non lo so se per colpa mia.. Non lo so. So solo che non ci sei mai stato, anche le poche volte che c’eri. Scusami Howard…Forse per te le mie parole sono troppo semplici, ma io non trovo che queste per spiegare ora. Di noi due”
“Io non mi sono mai preso cura di te” Howard strinse forte il suo cappello nelle due mani.
“Io non ti ho amato per quello. Non ti ho sposato per rallentare il tuo incredibile talento, con la mia mediocrità… Volevo solo che mi amassi. Nel tuo modo, qualsiasi fosse. Non ci sono riuscita. Sapevo che sarebbe stato difficile…Non pensavo che non avrei avuto nemmeno una possibilità, questo sì”
“Lo scrivere. I nostri progetti, i tuoi racconti. Volevo fare di te la parte migliore di me. Volevo…Vorrei..”
“I nostri progetti? – Sonia tirò leggermente la testa indietro, in un gesto di pacata stizza – I miei racconti?…No Howard, non esiste nessun “mio” racconto. Esiste..Esisteva solo il tuo talento proiettato su di me. Ho scritto per te, ho vissuto della tua vicinanza. Non quella fisica eh – sorrise senza malizia-. Ho vissuto del fatto che c’eri. Da qualche parte. Col corpo e con la mente. Ho attinto alla speranza che parte di quel tuo esserci, una piccola, magari infinitesimale parte, fosse a me dedicata. Nei tuoi pensieri, nel tuo cuore…”
“Nel mio scrivere..”
“No, in quello no. Mai, nemmeno una volta l’ho sperato. Sapevo già che quella era una cosa tua, imprescindibile, non divisibile. Sì, ho cercato di venirti dietro, ma eri sempre troppo lontano. Inarrivabile, anche nelle lettere che mi hai scritto. Il tuo scrivere, Howard, è una cosa grande, io sono troppo piccola per te – fermò il passo e lo guardò come a sperare di essere ascoltata – Lo è il mio talento, la mia emozione che è così diversa dalla tua… Ho cercato di farmi utile nella tua quotidianità. Sì, lo confesso: ho sperato di rendermi indispensabile in quelle poche settimane che mi hai concesso, ho spinto troppo. Sei scappato… Non c’è altra ragione, la spiegazione che devi darti è questa. Non ne esiste un’altra”.
Howard si sentì stupido. Non gli capitava mai, non sapeva gestire questa cosa. Così rimase per un attimo in silenzio e il suo sguardo si buttò oltre il muretto. Fra le discrete onde del lago Eire, volò sulle poche barche a vela in lontananza e poi, dall’alto ripiombò giù.
“Che cosa volevi fare Howard? – si disse – Perché sei venuto da Sonia?”
“Sei, almeno contenta di vedermi?” Le fece come un bambino
Lei gli sorrise fermandosi un attimo. Ancora una volta.
“Sono sempre felice di vederti Howard. Sono sempre in pensiero per te”.
Poi lo scrittore cominciò a raccontare del suo viaggio in Europa. Le disse tutto dell’Italia, mentre continuarono a passeggiare e lei lo osservava col suo sguardo severo che si scioglieva denso e profumato in occhi intensi e lucidi. Gli parlò di Antoni Gaudì e dell’invito a Barcellona “Dove – disse seduto al tavolo di un ristorante – sarebbe andato con la certezza che lo aspettava un compito importante. Che valeva una vita intera”. Le spiegò che non aveva voluto indagare nulla e che, il piacere di scoprire la sua missione catalana, lo avrebbe lasciato alle parole dell’architetto.
Non ebbe bisogno di raccontargli del suo stupore, della sua virulenta felicità, di quella nuova forza che animava il suo scrivere e la sua voglia di gettare le basi per nuovi racconti, secondo criteri per lui del tutto nuovi. Quelli della contiguità, del riferimento a una sola, grande madre orrorifica. Quella di Cthulhu. Storie che avrebbero avuto il privilegio di avere una matrice europea. Catalana. Con tutto il dispiegarsi di nuovi incredibili orizzonti ispirativi che questo comportava.
Sonia lo seguì con tutta la spossante brama della sua dolcezza, i suoi occhi s’ingrandirono e a tratti, si buttarono oltre il lago, facendo sfogare la sua immaginazione. Tutta proiettata su Howard, sui suoi sogni, sui suoi obiettivi. Il suo viso dal bel lineamento di donna dura e temprata, tradì tutta la infinita dolcezza, tutto il suo amore inespresso, custodito nel ventre, incatenato ora. Per non abbaiare, per non permettergli di proiettarsi su quell’uomo dalla bocca sottile e dal mento sporgente.
Fu l’ultimo atto d’amore di Sonia per Howard: ascoltare dei suoi progetti, dei suoi viaggi, del racconto, del suo futuro e sapere che non ne avrebbe fatto parte. Nascondere, trattenere in sé tutto l’amore, la forza dei suoi sogni. Che erano sogni così semplici: amare. Essere amata.
Howard no. Howard non si accorse di nulla, mentre raccontava e spiegava e vaneggiava. Non si accorse nemmeno del leggero tremore del labbro superiore di Sonia. Un impercettibile fremito che la donna ucraina occultò col fazzoletto, come a pulire chissà cosa.

Il pomeriggio inoltrato, scoccò l’ora dei saluti. Lovecraft si offrì di accompagnare Sonia al suo lavoro e ci fu un attimo di silenzio poco prima di arrivare.
“E tu cosa farai ora?” Chiese lo scrittore
“Sono qui alla Standard Oil. E’ un buon lavoro. Ho trovato anche casa, niente di che…”
Il viso della moglie si era fatto di nuovo serio,
Lui le prese le due mani “Senti Sonia…”
“Vai Howard. Vai” Lei si staccò, decisa e chinò il capo.
Lui si voltò continuando a guardarla col collo girato sui primi passi, con uno sguardo come di sconcerto e consapevolezza di sé. Dei propri limiti. Poi le diede la nuca.
A metà pomeriggio, le vie centrali di Cleveland si tornavano ad animare di figure maschili. Erano gli impiegati degli uffici, gli operai delle raffinerie, i manovali che lavoravano nella grande azienda dei Rockfeller. Howard vi si tuffò dentro, seguendo la scia in direzione della stazione.
Sentiva come un vuoto emozionale. Non si concesse il tempo di ripercorrere tutte le promesse che le aveva fatto e di vederla con gli occhi della sua anima, sola in una città che non era la sua a fare un lavoro che non era il suo.
Ritornò con la freddezza di un bambino incosciente a vagare con la mente sui suoi racconti futuri.

Sonia lo segui con lo sguardo per un po’, solo per un po’ ancora.

lunedì 16 marzo 2009

L'occasione della forma 12^ - Tre dita


Howard ogni mattina, fosse a New York o a Providence si spazzolava accuratamente le unghie delle mani, dopo averle insaponate. Poi con soddisfazione, asciugatele dopo il risciacquo, se le ammirava. Ne troppo lunghe ne troppo corte ma bianchissime. Era una sensazione che lo faceva stare bene ma che durava così poco. Già a metà mattina doveva ricorrere ad altre cure. Non sopportava la leggera striscia di nero che vi si formava in continuazione e che sapeva di lavoro manuale, di sporcizia invadente nei luoghi da lui frequentati. E provava stizzoso fastidio, fino a quando non erano tornate come prima. Così per lunghi periodi dell’anno aveva preso a girare in guanti, che si curava di sterilizzare e pulire soprattutto all’interno, rivoltandoli.
Più volte con Sonia, questa sua mania era stata fonte di litigio. Una prima volta appena sposati quando, realizzata questa fissazione del marito, la donna ucraina ci aveva scherzato su:
“Howard che ci vuoi fare? E’ come per gli abiti: c’è chi indossa il gessato dalla mattina e a sera sembra ancora un modello, c’è chi dopo un quarto d’ora che lo ha addosso, l’ha già ridotto uno straccio… Rassegnati a non avere sempre le unghie bianchissime e falla finita”.
In virtù di tante queste piccole “invadenze”e di altre inadeguatezze matrimoniali ben più gravi, Howard non era riuscito a superare il passo dei primi mesi di convivenza a Brooklyn e aveva preso a schivare le occasioni di ritrovo con la moglie. Sempre più assente nelle lunghissime sere invernali, scippato via dal “Circolo dei giornalisti dilettanti”, sempre più assente durante la bella stagione, quando la sua Providence lo chiamava. Quello era diventato, alla fine, un “non matrimonio”. Dove l’unica a mostrare una certa dignità nelle apparenze era rimasta Sonia, “presa” dai suoi cappelli, dalla cura della casa, dalle speranze di moglie, ma mai da suo marito.

Quando Lovecraft ripartì da Providence per tornare a New York, constatò che questa volta non gli sarebbe nemmeno toccato dare spiegazioni a Sonia. Anzi, non doveva neppure passare a farle il convenevole saluto di marito “fuori per lavoro”. Lei si era trasferita a Cleveland dopo il fallimento della sua piccola azienda di cappelli e gli aveva lasciato spazio per agire a New York, senza rendere conto. A nessuno.
Così era tornato da Paco de Los Rios e aveva avuto il tempo anche di piacevoli scoperte.
Aveva brama di vedere l’esule messicano. Voglia di sottoporgli il suo lavoro. Che fosse tradotto presto e bene. C’era poi la lettera da inviare ad Antoni Gaudì. Sperava che la traduzione fosse resa pronta per il giorno dopo. Trattandosi solo di poche righe.
Paco gli aveva offerto un caffè e mentre, con una curiosa caffettiera, attendeva il ribollirne sulla fiamma, aveva preso in mano il plico di fogli con il racconto di Howard. L’aveva scorso brevemente, leggendo qualche passo a caso, appoggiato alla cucina di ceramica.
Aveva detto, quindi, il suo prezzo e Lovecraft aveva sorriso.
Paco, realizzò Lovecraft, era un personaggio curioso. Aveva occhi intelligenti e ironici, un corpo asciutto e slanciato pur non essendo alto. Capelli ondeggianti e brizzolati, ma d’un nero corvino.
Muoveva le mani con gesti veloci di antica raffinatezza.
Aveva caricato la caffettiera, sopra la fiamma accesa. Lo aveva fatto con movimento di impronta destrorsa e ritmica, usando l’opponibilità di pollice e indice. Le uniche due dita che gli erano rimaste nella destra. La sua mano, nell’operazione era rimasta per alcuni secondi nel raggio della fiamma, ma non si era scottato. Aveva reso un’assenza il suo vantaggio. Una menomazione il suo più grande pregio. Almeno nell’operazione di farsi un caffè denso e nerissimo.
Poi la caffetteria annerita aveva sobbalzato e avevano bevuto insieme. Come due vecchi amici.

“Io non sono un poeta, mister Lovecraft –aveva detto a un certo punto il messicano- ma capisco che quello che le mi fa tradurre non è poesia. E’ qualcosa di più. O di meno, dipende dall’animo che si ha. Tanta gente viene da me a domandare servizi di questo tipo. Per lo più uomini sposati che chiedono di tenersi in contatto con le loro amanti in sudamerica. Poi ci sono le lettere d’affari e quelle fra parenti. Il mercato tiene bene, per chi ha una bella calligrafia. Ma cose come le sue no. Non le ho mai tradotte…”
“Le piacciono?” Aveva ribattuto Howard sereno.
“Non so ancora” Si era lisciato il pizzetto brizzolato.
“Ma c’è una cosa che mi piacerebbe sapere, Mister Lovecraft…”
“Sì”
“Come fa? Come si fa a immaginare queste cose e a non averne paura?” Gli occhi di De Los Rios si erano fatti sottili, quasi serentori.
“Yo creo que…Credo che si fa fatica, poi a tornare nella realtà. Una esposa antipatica, un niño
odioso, el trabajo…Il capoufficio. Come si fa a…
“A non scollarsi dalla realtà?”
“Esatto”
Howard Lovecraft aveva guardato il suo traduttore e, in un istante, aveva deciso che voleva fidarsi, spendere qualche parola per spiegarli. Nella sua logica sagace, aveva giudicato e deciso, ma solo in quel momento e di fronte a quella domanda impertinente, che se quel messicano menomato doveva essere il suo traduttore, era giusto che cominciasse a capire. Quantomeno a grandi linee. Così sorseggiò dalla tazza fumosa, si fece ironicamente serio, e parlò. Senza la pretesa di essere capito al volo.
“Paco lei è stato all’Esposizione Francese? Quella di due anni fa, qui a New York?
Io sì – Howard sorrise-. Nel padiglione delle nuove tecnologie c’era la casa del futuro. In ogni stanza almeno una bocca per la corrente, in altre addirittura due... Ci hanno fatto vedere come vivremo fra qualche anno, forse venti. Quasi tutte le case saranno dotate di quelle bocche. E ci saranno bocche per le radio e per macchine che lavano i piatti e per macchine che lavano i panni. Per mantenere i cibi freddi. Funzionerà tutto a elettricità, grazie alle bocche, alle prese di corrente alle quali saranno collegate…”
Paco De Los Rios lo guardava stranito, non tanto per quello che diceva, quanto per il modo. Howard aveva una luce, una fiamma negli occhi che ti trasportava sulla cresta delle sue parole. Lasciando una scia. Come una lunga via di indizi per seguirne il percorso e arrivare. Dove lui era già.
“…Io – spiegò Howard – mi pensò come un uomo collegato a queste bocche con tanti cavi elettrici. Le mie passioni, la mia realtà, i miei desideri sono collegati a queste rose. Solo che al posto di portare corrente, questi cavi portano vita. Lei mi capisce Paco?”
“Sinceramente no” Fece il traduttore sorseggiando il suo caffè. Per nulla vergognoso. Allo scrittore questa sfacciataggine piacque.
“Ognuno di noi prova emozioni – riattaccò Howard – chi con più forza, chi con minore intensità. Ma queste, corpose o esili che siano, sono alimentate dai nostri pensieri, dai nostri sensi soprattutto”.
De Los Rios lo seguiva attento. Scettico.
“Io scollego le emozioni dai miei sensi, dai miei pensieri. Stacco le loro spine da quelle prese di corrente. Non sento più nulla. Non ho bisogni, non ho paure, non ho rimorsi che i miei sensi possano alimentare. Restano solo le emozioni. Emozioni allo stato puro che mi escono da dentro. Dalla mia immaginazione.
Io non lo so perché, ma è così.
Non so nemmeno se così si diventa, ma se è alla realtà delle mie passioni che io sento di dover rinunciare. Io ci rinuncio e vado avanti… Vado avanti, perché è la mia idea, la mia emozione, che deve sopravvivere, non importa di cosa debba privarmi”
“Estas loco, sabes?”
“Prego?”
“Nada…Niente. Ma questa è una vita di rinunce, mister Lovecraft. Di non appagamento perenne. Per cosa?”
“Per la libertà interiore. Chi non sente, non ha bisogni. Chi sa rinunciare, non ha paura. La paura non lo condiziona.
Se io avessi paura di quello che scrivo, o ci credessi perché i miei sensi sono collegati alle mie emozioni, non potrei scrivere”
“Ma che vita è? Mister Lovecraft...Una vita di paura della paura”
Ci fu un attimo di silenzio, poi Howard tornò a guardare Paco.
“Le mancano?” Fece con un piccolo cenno del capo, indicando la destra del traduttore protesa sul tavolo vicino alle tazzine. Pensò che quella mano aperta e monca, nella “L” che formava con pollice e indice, e nella curva innaturale delle dita mancanti, fosse simile alla punta di un’alabarda.
“No, Le mie dita non mi mancano. Solo quando cambia il tempo. Pizzicano”.
“Ho visto come mi ha preparato il caffè – disse Howard serio -… Se le avesse avute ancora, non avrebbe potuto essere così abile, così veloce. Si sarebbe scottato. E questo che ha fatto, è davvero un ottimo caffè”
Paco De Los Rios esplose in una raffinata risata montante, mentre i suoi occhi luccicarono svegli. Poi raccontò a Howard delle sue tre dita, della sua vita a Guadalajara e di come avesse imparato l’inglese in pochi anni. Da profugo, da prima nella polverosa biblioteca del quartiere, poi sui quotidiani che consegnava a domicilio. Era un uomo d’intelligenza vivida. Un uomo che non sprecava un istante della sua vita.

La traduzione della lettera per Antoni Gaudì sarebbe stata pronta il giorno dopo. Paco non solo gliela regalò come omaggio sulla traduzione del racconto che sarebbe stata pronta per l’inizio di giugno, ma spinse Howard ad accettare la sua ospitalità per la notte.
“Puedes dormir aquì… Può dormire qui, mister Lovecraft. Questa stanza rimane chiusa sempre. La uso qualche volta, quando vengono a trovarmi dal Messico. C’è sempre qualcuno che ha bisogno di ospitalità”
“Parenti? Una Moglie?”
“Non sono sposato e i miei parenti chissà dove sono. No, sono amici o amici degli amici… Nel mio paese non è facile vivere, ancora oggi. Così ogni tanto bussa qualcuno alla mia porta. Io apro sempre. Non sai mai cosa ti riserva il futuro mister Lovecraft, per quanto tu possa essere bravo o fortunato. Ma così mi va di fare. Io non lascio mai fuori nessuno, non vorrei mai l’avessero fatto con me”.

Cenarono con “mole negro” e vino rosso che Paco si fece portare dalla taverna sotto casa, poi bevvero tequila e discussero di Zapata e di Villa, della politica estera di Calvin Coolidge e dell’embargo al Messico. L’ex contabile snocciolò da una cassetta di legno, tre o quattro cigarillos e se li fumò, dopo averli offerti senza successo allo scrittore. Infine, verso le dieci, De Los Rios accompagnò Howard alla sua camera.
“Spero che i rumori non la disturbino. La mia casa è un porto di mare –aggiunse sorridente il messicano – viene gente a tutte le ore…”
Quella notte Lovecraft faticò ad addormentarsi, lasciate le finestre aperte. Ascoltò il vociare che proveniva dalla strada sottostante, lo schiamazzare dei giovani e poi, proprio mentre i suoi occhi si stavano chiudendo, senti la porta dell’entrata che si apriva cigolando. Qualche ticchettio nel corridoio e qualche ridere sommesso. Quell’inequivocabile passeggio di donna su tacchi, lo rasserenò prima e poi lo incuriosì. Protese l’orecchio e attese. Di sentire l’inevitabile e bellissimo rumore dei primi baci passionali e il latino sussurrare del suo ospite.
Si disse che era quello il momento di addormentarsi, ma non fece in tempo. Gli vennero in mente i lineamenti sobri e volitivi della sua Sonia. La pensò sola a Cleveland, tornata commessa, la giudicò arrabbiata con lui, sentì come una stretta al collo dello stomaco, ma non si chiese che cos’era. Usò le sue forme per distrarsi, la sua immaginazione di scrittore onirico, ritornando al tentacolare Cthuluh, all’eccheggiare del suo Soggoth, ai loro miasmi orrendi, alle loro case partorite dalle immensità cavernose del sottosuolo, alle schiere di discepoli umani di immonda crudeltà.
Tornò il pensiero a Sonia.
Fu un pensiero che si spense in quel vento leggero di aprile. Un vento che ti parla della prossima estate, ma che non ti fa dimenticare l’inverno, mentre tu chiudi gli occhi perché sei stanco.

mercoledì 11 marzo 2009

L'occasione della forma 11^ - Pianto di Esteban


“El Forat Vermell” era il luogo notturno deputato ai divertimenti più bizzarri in quella Barcellona. Si scendevano due rampe di scale circolari, ci si faceva aprire con discrezione e si entrava sobri. Per uscirne chissà come. Ma certamente intrisi di fumo di sigaretta. Esteban lo conosceva bene e ne apprezzava l’originalità, al di là delle orchestre che ogni sera si esibivano e che non suonavano mai la stessa musica. L’orario giusto per arrivarci era fra la mezzanotte e l’una. Il sabato sera poi, era un fiorire di astrusità: ci si poteva incontrare, accanto all’artista di tendenza, al pittore dal lunghi baffi, la sobria commessa di giorno, che diventava la sfrenata ballerina di fox trot la notte. Con il trucco che alle prime ore dell’alba cominciava a colare e il corpo che faceva sempre più fatica a tenere il ritmo. C’erano giovani avvocati con porcellini al guinzaglio, distinti professionisti vestiti in longuette e bellissime donne con baffi posticci.
Cerveza, hashish e morfina erano gli antipasti di notti insalubri che raramente portavano a legami stabili. Fossero di sesso, di sentimenti o di amicizia. Ci si poteva incontrare in quel “buco” di duecento metri quadrati o poco più, amarsi, legarsi da profonda amicizia e poi ignorarsi il giorno dopo, magari se ci si incontrava per la strada.
Il bello di quel locale notturno risiedeva in larga parte in un muro di mattoni rossi alto un metro e ottanta a circa due metri dalla parete in fondo, con un piccolo buco perfettamente circolare a mezza altezza. Si diceva che una volta persa la lucidità, ci si doveva affacciare, proprio come nel gesto di spiare dalla serratura e, a seconda di dove l’occhio sarebbe caduto, si sarebbe capito cosa aveva in serbo il destino. Per il proprio immediato futuro.
Non di rado, era capitato a qualcuno di affacciarvisi e di inquadrare qualche viso inatteso. Si diceva che molti, ragazzi o ragazze che fossero, avessero avuto la prima e spesso unica esperienza omosessuale, grazie a quel buco e che molti artisti da quelle visioni circolari avessero tratto alcune delle loro opere più belle. Fonte di ispirazione, di istinti pornografici, di elegiaci pensieri che fosse, quel sabato sera Esteban vi si era attaccato come un bambino. Ubriaco fradicio, aveva centrato in pieno una improvvisata ballerina dai capelli neri. Aveva ammirato le sue gambe , il suo personale, la sua bocca procace.
Poi, impercettibilmente barcollante, gli si era avvicinato.
“Sì può fare – gli aveva risposto sorridendo, nel frastuono sfrenato della musica – ma mi devi pagare. Stasera costo 1 peso…”
Lui l’aveva guardata stranito e lei aveva aggiunto: “Il prezzo non conta Amancito…Stasera io sono una puttana e tu ti chiami Amancito”.
Un sorriso annebbiato di Esteban aveva concluso l’accordo di scambio che si sarebbe formalizzato a casa del giovane architetto. Quella notte aveva preso della portoghese tutto quello che un uomo può prendere, senza esclusioni che la libidine possa accettare. Cos’altro poteva importare a Esteban Labruna, giovane di bell’aspetto e di passioni sfrenate.

La folla stava zitta quella domenica mattina. Ritti e silenziosi, Anziani, uomini, donne e bambini. Come in attesa di qualcosa, di un accadimento prossimo e sconcertante. Esteban tagliò le ultime file di astanti e con passo lentissimo si sganciò da Rinaldo e dall’altro uomo e si pose come alla guida di quella moltitudine fissa.. Come se con l’emergere dalla massa volesse caricarsi di quella responsabilità, gridare al mondo intero: “E’ colpa mia. E’ colpa mia”.
Era, anche, colpa sua.

“Parliamoci chiaro Labruna: lei non ha talento. Lo dicono i suoi compagni dell’accademia, lo dice il suo trascorso di studente, nelle segnalazioni dei suoi insegnanti. Eppure ha frequentazioni di prestigio…” Il viso scavato dell’uomo vestito di nero, faceva a pugni con quel crocifisso d’argento massiccio che gli penzolava, incatenato al collo.
“..D’altra parte Barcellona oggi non ha bisogno di altri architetti di talento. C’è bisogno d’altro. Suo padre, buonanima, le ha lasciato una discreta eredità. Sufficiente a vivere una vita agiata senza essere…Senza essere un maestro nelle arti e nella progettazione. Lei ne è consapevole, a giudicare dall’impegno, chiamiamolo così, che ha profuso fino ad oggi nei suoi studi. Vero è anche che le sue rendite non le permetteranno a lungo una vita così dispendiosa…”
Esteban lo aveva guardato con un abbozzo di sorriso indisponente che si era via via annacquato nella simulazione. Era tutto vero. Talmente vero che gli faceva male sentirselo dire. Così era, mentre nella stanza della curia dove era stato inspiegabilmente convocato, assisteva all’analisi della sua vita. Allo smontaggio delle sue velleitarie ambizioni. Neanche il tempo di prendere l’abilitazione e già era un fallito.
“…Questo ritmo di spese, caro Labruna, non potrà condurla molto lontano. Vorrei che ne fosse consapevole. Vero è anche che a un giovane in salute e di bell’aspetto e buone maniere occasioni non mancano. E non sto parlando solo di occasioni…Di occasioni giocose”. Esteban era arrossito alla metafora dell’alto prelato.
“Con questo, certa parte della curia intende offrirle un’opportunità. Che sia di espiazione per l’anima da un lato e giusta occasione remunerativa dall’altra. Un modo per riscattarsi dalla sue abitudini dissipate. Perché sono queste, Signor Labruna, quelle che hanno attirato la nostra attenzione.
Conoscevamo tutti suo padre che come sarto e uomo timorato di dio si è fatto molto apprezzare in questa curia e con questo vorremmo in qualche modo onorare la sua memoria”
“Lascia stare la memoria di mio padre” Pensò Esteban che non ebbe il coraggio di fiatare
“L’incarico che vogliamo offrirle giovane Labruna è molto semplice….”.
Si trattava di diventare, su pressione della curia, collaboratore di Antoni Gaudì. Si sarebbe trattato di assisterlo, accompagnarlo, nel lavoro e, dove possibile, nella vita privata. Si sarebbe trattato di vedere, capire e riferire. Il perché di questo rallentamento dei lavori e non solo: lo stato mentale e fisico del genio della Pedrera.
Si sarebbe trattato di fare la spia. Viscida, maleodorante e vigliacca. In cambio di un posto di rilievo nell’amministrazione del patrimonio urbanistico della Chiesa Catalana allo scontare della sua missione. In cambio anche del perdono per tutte le “malefatte” di giovane che non voleva altro che godersi la vita.
Aveva accettato subito e di Don Gaudì, in virtù dell’imposizione ecclesiastica che ne finanziava i lavori, era diventato come un sussiegoso parassita. La sua affabile assistente di giorno, la sua sconcertante ombra la sera. Quando i movimenti dell’architetto di Dio, peraltro ben poco agili e frequenti, ne consigliavano la presenza.
Antoni lo aveva scorto subito, sin dal loro primo incontro, quando Esteban si era presentato allo studio col baffetto virtuoso e il capello ingelatinato e lo aveva accettato. Forse come un dazio da pagare, probabilmente come un’ennesima forma espiativa, certamente non come un peso. Almeno a giudicare dal fatto che non fece mai nulla per nascondergli qualcosa, ne tantomeno per eludere quella presenza.
Una volta, qualche mese prima, ne avevano anche finito col ridere, quando sornione, Don Gaudì aveva prorotto improvviso : “Serve un altro finanziamento, per sbancare verso ovest… Esteban ci devi pensare tu quando andrai in curia a riferire”
Esteban, soprappensiero aveva replicato immediato: “Io lo faccio sempre presente Don Gaudì…” Salvo poi mordersi la lingua, quando aveva sentito, sommesso, il risolino dell’architetto steso sul tecnigrafo. Ne aveva, alla fine, riso anche lui. E il loro ridere si fuse.
Quello di cui Esteban era certo, era invece che l’anziano non aveva presente fino a che punto egli avesse preso a stargli dietro. Da prima come compito assegnato, successivamente come dovere preciso che sentiva verso l’uomo innanzitutto e poi verso la sua terra, dal momento che stimava quel possente essere ricurvo, un vero patrimonio della Catalogna.
Nelle pieghe della sua ombrosità, fra le sfumature dei suoi modi asciutti e stantii, nelle sue assenze e nel suo sguardo dolce e vivido, aveva quindi finito per apprezzarlo, al di là del suo genio.
E per volergli bene.

Fu questa una delle cose che Esteban Labruna da Cadaqués realizzò nella calle de Los Fuentes quella domenica mattina. Fu un sentimento che esulava dal dovere, dall’umana pietà e ricadeva con un tonfo sordo e greve sui suoi affetti più profondi. Qualcosa che fioriva colorato dentro di sé e immediatamente appassiva, frantumandosi poi, come fiore rinsecchito che si sgretola.
Sentì per la prima volta come implode un affetto vero, quando lo si riconosce nel momento in cui si rischia di perderlo.
A tutto questo prendere coscienza, il giovane Labruna, mentre si avvicinava al suo maestro, dovette sommare tutto il melmoso senso di colpa per averlo abbandonato solitario al cantiere, la sera prima. Per averlo lasciato lì, a meditare nella penombra; a vagare fra colonne, impalcature, archi e progetti accennati. A volare in cerca dell’anima del manovale diciassettenne che era caduto; a ricadere in quell’assurdo e ridondante senso di colpa.
“Come posso essermene andato? Come posso averlo fatto?”
Rivide il suo viso fra le cosce di Estrela e si fermò a un metro da Don Gaudì, alzò il capo al cielo come a fermare un oceano di lacrime con l’aiuto della forza di gravità.
Poi strinse i pugni e i suoi occhi cerchiati di rosso si puntarono sull’anziano architetto.

“Don Gaudì…Don Gaudì” Sussurrò, sforzandosi a una voce serena, mentre il suo giovane corpo si fletteva, inarcandosi verso il basso.

Inginocchiato a capo chino, con i capelli arruffati Antoni Gaudì stava. Più in attesa di esecuzione, nuca alla luce, che in preghiera. Come innaturale arredo, nel mezzo di una via lastricata di ciottoli.
Una posa che davanti a una chiesa avrebbe esaltato l’immagine dell’architetto di dio, ma che davanti a un casa parlava di pazzia allo stato puro.

“Don Gaudì mi guardi, prego” Rifece Esteban, dopo essersi voltato un istante verso la folla alle sue spalle. “Cosa succede Maestro? Come posso aiutarla?” Il cuore di Esteban riprese a pulsare normale, come ravvivato da nuova forza interiore.
Nell’immobilità silenziosa dell’anziano, come per meglio averne visuale, Labruna si sedette per terra alla sua destra e, calmo, gettò gli occhi al suo viso.
Osservò la sua giacca strappata all’avambraccio, e i segni di una notte insonne sulla faccia, scacciò via il pensiero ridondante dei suoi bagordi e si concentrò sul corpo del suo maestro, collo sbottonato.
Fu dopo qualche minuto che Antoni Gaudì si voltò lento verso il suo assistente e lo guardò.
Come se non lo riconoscesse.
“Don Gaudì come si sente?” Gli sussurrò vicino.
I suoi occhi erano pieni di una stanchezza decennale, disorientati come quelli di un bambino che balbetta e non sa venire a capo della sua frase disconnessa. Si perdevano a destra, poi a sinistra e ritornavano su Esteban come se cercassero qualcosa di smarrito in un istante. Movimenti lenti nel roteare e per questo dolorosi, senza quella mobilità, quella gioventù ambiziosa che avevano fatto dello sguardo di Antoni Gaudì forse l’unico vero biglietto da visita del suo genio.
Esteban non volle fermarsi a quegli occhi. Accarezzò il viso del suo maestro come farebbe un figlio con un padre e si alzò di scatto.
“Signori prego, ascoltate…- si rivolse al centinaio di presenti – Il maestro Gaudì non si è sentito bene questa notte. Io mi scuso…Lui si scusa per questo spettacolo inusuale”
Poi rivolse un’occhiata d’intesa a Rinaldo che a sua volta si voltò dalla prima fila, verso la folla.
“Io vi prego, tornate a casa. Mi prenderò cura io di Don Gaudì. Non vi preoccupate non è successo niente di grave… Grazie. Grazie ancora”
E così facendo allargò le braccia con un gesto a metà fra lo sconsolato e il riconoscente. Con l’aiuto discreto del capomastro, piano, riuscirono a disperdere la gente della calle.
Poi, mentre il brusio si dissolveva, Esteban tornò sull’architetto che vagava con lo sguardo, come uscito da coma vigile.
Lentamente lo aiutò a sollevarsi, ne spazzolò i pantaloni all’altezza delle ginocchia, ebbe compassione per quelle vecchie articolazioni, e per un attimo guardò la casa davanti alla quale il suo maestro era stato genuflesso per ore.
L’edificio ricoperto di mosaici nel quale predominavano i toni caldi, ricordava negli slanci, certo modo di concepire forme, tipico del modernismo naturalista al suo stato embrionale, quando il concetto di curva, come nuova via della strutturazione degli edifici abitativi era ben al di là da venire o dall’essere attuata. Un’evoluzione di cui avrebbe dettato tempi e modi soprattutto Antoni Gaudì.
Non ebbe tempo per ragionare sul perché di quel prostrarsi del suo maestro, davanti a quella casa. O non volle, semplicemente.
Passandosi l’avambraccio sulla fronte, mentre Rinaldo aiutava Antoni, pensò che la cosa più importante era la salute del suo maestro. Non gli importava nulla del suo senno. Voleva solo stesse bene. E lo voleva con tutta la rabbia arrogante della sua gioventù.
Avrebbe dato ogni cosa per quella certezza.
Sul furgoncino che lo portava allo studio del maestro, Esteban cinse un braccio attorno alla spalla di Antoni Gaudì e piano, guardando fuori dal finestrino per nascondersi, cominciò a piangere di un pianto strozzato. Da uomo adulto.

sabato 7 marzo 2009

L'occasione della forma 10^ - Estrela



Ogni giorno Antoni Gaudì partiva solitario dal suo studio; ogni mattina, leggermente gobbo, come per un curioso e impossibile effetto della sua barba folta, bianca e pendente; pensieroso, camminando assente, con le mani incrociate dietro la schiena.
Faceva sempre la stessa strada, attraversava la via delle botteghe, quindi s’infilava nella calle degli orefici, attraversava la rambla “central”, incurante di tutto. Dei rumori che lo circondavano, del profumo di primavera a primavera, dell’odore delle castagne arrosto in autunno, che già al mattino rosolavano sui bracieri esterni dei negozietti alimentari. Era come una figura eterea, un sacro animale randagio che percorreva sempre la stessa strada, alla stessa ora e si dirigeva al lavoro. Affondato nei suoi pensieri.
I negozianti, le donne che a quell’ora del mattino sciorinavano i loro panni, esponendoli in estate alla calura accennata, i bambini che andavano a scuola, finanche i carabineros in coppia, avevano imparato a conoscerlo. A rispettare la sua pregna lontananza. Lui sembrava fosse lì da sempre e mentre gli anni passavano, e il suo incedere si faceva solo leggermente più claudicante, l’ammirazione per quel vecchio architetto cresceva. Trasformandolo in icona, monumento mobile e creativo di una Barcellona viva e reattiva, fucina di arti e mestieri, di bellezze, di gioventù ascetiche.
La gente di quella Catalogna lo adorava, Antoni se ne accorgeva a tratti, quando i suoi impegni mentali gli consentivano di allungare lo sguardo ai lati della strada. E capitava sempre più di rado. C’era sempre qualcuno che gli sorrideva. Dall’uscio di una porta socchiusa, dalla finestra spalancata alla frescura mattutina, dalle carrozze che, silenziose, sfilavano. Un tocco sul cappello del gentiluomo in doppiopetto, un impercettibile inchinarsi di capo della signora imbellettata, un rispettoso rallentare di passo dello scolaro in divisa.
Antoni Gaudì si sentiva Barcellona e Barcellona attingeva da Gaudì il suo istinto a crescere, a farsi bella e importante. In cambio la città proteggeva il suo genio, lo accudiva silenziosa e discreta, quasi che il disturbo di un saluto potesse incrinare quella splendida sinergia. Quello scambio continuo. Nessuno in quelle infinite mattine avrebbe mai osato interferire col passo di Antoni. Ma tutti sarebbero stati pronti ad accoglierlo ad aiutarlo ad un minimo cenno di necessità.
C’era, poi, qualcuno che lo seguiva a distanza. Certo di non essere scorto, visto quell’incedere a capo chino. Qualcuno che lo apprezzava da vicino, ma sapeva stargli lontano e che, anzi, lo sentiva come un compito. Una sorta di missione espiativa.
Sempre in ordine, Antoni si recava al cantiere, magari dopo un intera notte di studio sul suo tecnigrafo, piuttosto che rimbalzato nella sua frau ergonomica. Dove passava ore intere a studiare, a ritoccare, a ritratteggiare i disegni dei suoi collaboratori, coi quali parlava poco e che si limitava a bacchettare tacitamente quando occorreva, nel silenzio di certi drastici tagli a strutture, mosaici, rosoni e figure. Diversamente concepiti dai suoi giovani architetti.

La mattina che ricevette la risposta di Howard, era stata una di quelle più difficili.
I lavori procedevano a rilento in quell’aprile del 1926 e la colpa era di Antoni. Lo sapeva anche lui.
Il suo corpo cominciava a cedere, lento. La sua mente benché lucidissima nelle misure, nei calcoli, nell’aspetto più strettamente tecnico del suo progettare, era come assopita da mesi. Gli capitava di rimanere curvo sulla struttura di una colonna gettata su lucido per ore e non riuscire a concedersi quel tocco di astratta originalità che gli veniva facile, fino a poco tempo prima. Per questa crisi creativa Antoni si era concesso il viaggio a Parigi, per questa crisi creativa si cominciava a sussurrare nell’ambiente che Don Gaudì fosse in declino, troppo vecchio per portare avanti la sua opera.
Troppo spesso negli ultimi mesi la curia gli aveva mandato in cantiere degli strani visitatori vestiti da preti, di più o meno alto lignaggio, fino al limite del porporato. Con la scusa dell’ammirare i lavori. “…Apprezzarne i progressi”.
Troppe volte, ultimamente, gli si erano rivolte domande sul domani, sul futuro, sullo “…Sviluppo di qua..Sulla prossima rappresentazione di là”. Certo nessuno ancora osava mettere in dubbio la riuscita del suo impegno, ma quel cantiere costava tantissimo e il tempo era troppo poco. Anche quello da concedere a un genio assoluto.
Antoni Gaudì lo sapeva, ma questo non gli impediva di constatare amaramente fra sé e sussurrarsi ogni volta: “Domandare a un vecchio del futuro…del domani... Che doloroso affronto”. Poi tornava a piegarsi sul quel senso di rinnovata inadeguatezza che lo faceva soffrire, acuendo il suo mutismo.

Quella mattina il rito della passeggiata solitaria era stato innervato di nuova forza. Fra le carte, imbucate da pochi minuti aveva trovato la calda ed entusiasta lettera di Howard Lovecraft che portava il timbro di Brooklyn, New York.

“Gentile Maestro Gaudì,
non so esprimerle la mia gratitudine per l’attenzione che Ella ha voluto rivolgere a me , alla mia attività. Già tanto per me era osare la speranza che potesse capire il mio piccolo dramma creativo. Ora che lei mostra interesse per la mia opera e mi chiama a sé non posso che rappresentarle tutti i sensi del mio gioioso stupore.
Ho utilizzato il danaro che così generosamente ha voluto inviarmi per ottenere la traduzione del mio ultimo racconto, concepito durante il mio viaggio di ritorno dall’Europa. I tempi della rielaborazione assegnata, come Ella mi ha indicato, al medesimo traduttore, non mi permetteranno di poterne disporre fino al mese di giugno inoltrato. Mese in cui, qualora mi mostrasse gradimento, avrei deciso di accogliere il suo invito e raggiungerla nella sua Barcellona.
Sarà con tutta la mia infaticabile abnegazione che mi metterò a sua disposizione, qualsiasi possa essere l’impegno che Ella ha pensato per me…”

La lettera, oltre che con affettuosi saluti, terminava con l’indicazione di possibili date di arrivo a Barcellona. Una nave, la prima dalla seconda metà di giugno, sarebbe partita giusto alla fine del mese, per arrivare in Catalogna nei primi giorni di luglio. Antoni si disse che quelle date sarebbero andate bene e, una volta in cantiere, diede indicazione a Esteban di preparare il viaggio del suo ospite. Voleva che Howard viaggiasse in una prima classe, da prenotare subito. Consegnò per questo la lettera al suo giovane collaboratore, proprio mentre il cantiere era funestato da un altro brutto episodio.
Un ragazzo di soli diciassette anni, agile manovale, era caduto per venti metri trovando la morte sul colpo.
Antoni ne rimase ancora una volta dilaniato nel profondo. Non era la prima volta che accadeva. Nei decenni erano state parecchie le morti sul lavoro nei cantieri di Gaudì. Una media tragicamente normale per quegli anni, ma ogni volta “l’architetto di Dio” s’incolpava per quello.
In quest’ultimo periodo poi, aveva preso a pensare che ogni incidente sul lavoro in quel cantiere fosse in qualche modo riconducibile alla sua lentezza, al suo creare non più fluido. Era un brutto pensiero davvero. Uno di quelli che ti distrae, ti distoglie dalle tue ambizioni. Un pensiero malsano, come una crepa nel lucido razionalismo di un uomo che così a lungo aveva saputo piegare la sua vena originale, facendola diventare genio.
Ogni morte in un suo cantiere, già da molti anni, costava al maestro l’altissimo prezzo di interminabili notti insonni e il basso costo di una cospicua somma di denaro fatta pervenire anonimamente ai familiari dello scomparso. Di cui Antoni si privava con autolesionistico piacere.
Ma ora non bastava più.
A tacitare i suoi rimorsi, che si sommavano gli uni agli altri, in spirali sempre più vorticose nelle notti catalane.
La sua creatività lo stava abbandonando. Di più: stava scomparendo, lenta, negli anfratti di una mente invecchiata che, nelle tappe di un inevitabile regresso, era ora retrocessa a una normalità che Gaudì non poteva permettersi.
Così spesso, ai piedi di un lucido, in calce a un appunto personale sul suo taccuino, annotava frasi solo apparentemente senza senso. Lamenti sommessi, confessioni deliranti.

“…Ci sono troppe volte, troppe guglie, troppi rosoni da concepire…Ho bisogno di tempo, non posso invecchiare così…Chi continuerà il mio lavoro? La mia ambizione non avrà prosecutori. Sarà vinta da se stessa…Vinta da se stessa”

Quella sera Antoni si attardò solitario al cantiere, attese che l’ultimo dei capomastri si congedasse, controllate le macchine e gli attrezzi, e stette. Solo. Seduto su grosso blocco di pietra.
Appoggiò il mento sulla mano e il gomito sulla gamba accavallata, in una posa di serenità mentre, dentro, l’anima si accartocciava su se stessa.
Attese le luci notturne filtrare dalle pareti in progetto, prese ad accarezzarsi la barba poi annotò sul suo taccuino:
“Il signor Howard si occuperà di soccorrere la mia creatività, darà parole a forme che ancora non esistono, aprirà spazi in questo luogo, allungherà dimensioni e ricombinerà colori. Gli stessi che io avrei concepito se non fossi così vecchio. Io gli darò le mie conoscenze. Piegherò il mio sapere tecnico al suo talento, gli offrirò la mia esperienza, lo erudirò, ne farò uomo diverso. In grado di continuare tutto questo.…Quando vedrà tutto questo…Quando vedrà tutto questo, capirà il suo compito. Non avrà bisogno di parole. Nessun altro che io conosca è in grado di farlo”.
Passò le ore girando per il cantiere deserto, illuminato di riflesso dalle luci delle strade attorno, da uno spicchio di luna che si rifletteva sul marmo bianco e ricadeva, quasi impercettibile, nei meandri della sua splendida creatura. Una notte di emozioni, di decisioni, di coraggio infinito.
Di forza fisica incredibile in quell’ultrasettantenne che stava smarrendo sé stesso.
“Mio Dio, a cui ho dedicato la mia opera – fu il suo lamento interiore, che divenne preghiera sommessa, vergata sul taccuino – sorreggimi, accompagna il mio senno, non farmi smarrire. Dammi la forza di dettare la mia opera futura, il coraggio di cercare nuova linfa per le mie idee. Mio Dio sostieni la mia boria, assegnami altra presunzione, spingi il mio seme ambizioso, rendilo fecondo nel ventre florido di un’altra mente, di un altro cuore. Non lasciare che tutto questo si perda, dimentica la mia povera vita, lascia che i miei anni spesi per te siano persi, ma non lasciare che siano le idee a perdersi. Quelle non appartengono a me. Sono tue, come tuo è tutto questo. Ti prego mio Dio, benedici il mio lavoro in questo momento difficile”

Erano quelle le prime parole in prosa comprensibile che venivano segnate su quel libretto, gravido per altro di disegni, simboli, calcoli e schizzi pasticciati.

La mattina dopo era domenica. Esteban Labruna fu svegliato nel suo monolocale da colpi secchi alla porta. Si alzò con i capelli in piedi e gli occhi gelatinosi e andò ad aprire con il fiato rancido di chi aveva bevuto un po’ troppo la sera prima.
“Ci scusi signor Labruna deve venire con noi” Fecero due uomini corpulenti e vestiti in modo dimesso.
“Che c’è?” Rimandò il giovane, perplesso e anche un po’ impaurito, mentre metteva a fuoco.
“Ci ha dato il suo indirizzo il portiere dello studio” Fece uno di questi, mentre con le mani massacrava le falde del cappello e ondeggiava impercettibilmente.
“Venga con noi, prego. Forse non c’è molto tempo…”. Esteban aveva riconosciuto Rinaldo, uno dei capimastri del cantiere. Uno di quelli più in gamba.
L’altro, sconosciuto, mentre Labruna si vestiva alla meglio, quasi balbettando cominciò a spiegare lentamente.
Saliti su un furgoncino polveroso, i tre affrontarono le strade semideserte di Barcellona, spingendo al massimo lo sbuffoso mezzo. Labruna cacciò fuori il viso dal finestrino come per riprendersi dall’ennesimo sonno disturbato e problematico. Addosso aveva ancora l’odore bestino del sesso di Estrela. Una ballerina portoghese dal seno prosperoso e dalla gamba lunga che, a dispetto della sua avvenenza, gli era costata così poco.
Giunti in una zona centrale della città, Rinaldo arrestò il mezzo bruscamente e i tre scesero di corsa, inforcando una via stretta a lunghe falcate. Proprio mentre la via si allargava, la loro corsa si fermò spalle a un nugolo di persone silenziose. Ferme come in contemplazione.
Si fecero largo bruscamente.

“Ecco Signor Labruna. E’ così da almeno quattro ore…Da poco prima che il sole sorgesse. Lo sappiamo perché il primo ad accorgersene è stato uno spazzino che abita poco distante. Nessuno ha avuto il coraggio di fare nulla.”
Esteban sentì che il cuore gli batteva forte in gola, gli sembrò come una vampata di vergogna che lo cingeva da dietro e lo faceva roteare.
Rimase a bocca aperta, rosso in viso, lasciando che lo sbattere di palpebre durasse un eternità.
Come per non vedere. Non capire.

mercoledì 4 marzo 2009

L'occasione della forma 9^ - Indefatigable


L’aria si faceva malsana a una certa ora. Le stanzone di terza classe diventavano, nel chiaroscuro delle poche candele private, come un teatro delle ombre. Dove le sagome di abitanti delle più svariate origini sembravano giocare, dormienti, con quei flebili raggi di luce. Un magrebino tossiva, un basco si voltava nel letto cigolante, un fiammingo farfugliava qualcosa nella sua lingua incomprensibile. C’era il gruppo dei francesi in cerca di fortuna, dei pochi nordafricani che avevano potuto guadagnarsi il viaggio della speranza, dei valloni in cerca di miglior clima, degli italiani in fuga dalla dittatura. Barbuti pirenaici intagliavano il legno anche la notte, dando forma a sgradevoli statuette. Gli olandesi sembravano invece i più ben disposti nei confronti del prossimo.
Una faccia tante facce. Che Howard non amava, in quanto monade a condividere la stessa aria irrespirabile nelle ore notturne, a spartire gli stessi odori, che diventavano fetore nella notte ondeggiante.
Così in quella traversata, aveva preso l’abitudine di dormire di giorno, restando sveglio la notte.
Ben presto aveva capito che se voleva rendere produttivo quel ritorno ozioso, avrebbe dovuto cominciare a scrivere subito, avrebbe dovuto cercare una strada ispirativa da concretizzare in un racconto. Lungo o corto che potesse essere.
Terminato il suo girovagare europeo, il suo estasiarsi, era arrivato il momento di produrre.
Lo spunto gli era arrivato a grazie a Rune, la seconda sera sul transatlantico. Appoggiato alla balaustra di terza classe, fermo in contemplazione dell’oceano, aveva visto una decina di metri più in là, nella sua identica posizione un tipo curioso, con una pesante giacca da marinaio e un berretto di lana scura con un pon pon penzolante. Un uomo dai colori ramati e dalle spalle enormi, goffamente prone verso l’Atlantico. Bastò avvicinarsi e rivolgergli una parola per ottenerne con una certa giovialità, un piccolo resoconto.

Rune Andre era un norvegese di Trondheim e aveva speso almeno venti dei suoi poco più di trent’anni, su navi di vario tipo. Da nord a sud, da est a ovest e ritorni. Parlava anche per questo un ottimo inglese e per Howard fu davvero un sollievo, dopo più di un mese, tornare a parlare nella sua lingua. E capire. Ed essere capito nell’immediato.
Anche Rune non amava le moltitudini.Aveva cominciato a odiarle una decina di anni prima, durante la grande guerra che lo aveva sorpreso imbarcato su un grosso peschereccio inglese. Sebbene avesse avuto la possibilità di tornare in una Norvegia neutrale, aveva deciso di restare per condividere il destino dei suoi compagni di navigazione inglesi. E per la paga. Tutti precettati in base alle leggi di sua maestà, a restare sulla propria barca che entrava “ipso facto” a far parte della marina militare.
La guerra per mesi era scivolata via tranquilla sulle sue terga gigantesche, poi una sera il peschereccio, riassettato come nave soccorso, fu chiamato a nord ovest delle coste danesi. Il 31 maggio 1916 Rune e gli altri venticinque membri dell’equipaggio furono testimoni impotenti dell’affondamento dell’incrociatore da battaglia “Indefatigable”. Due proiettili avevano colpito l’armeria, facendola inarcare dal basso, poi altri proiettili tedeschi avevano centrato la torre principale, cogliendo in pieno l’altro magazzino delle munizioni.
“Signore mio – disse ad Howard con un tono sommesso che non ammetteva repliche – fu come vedere una città intera che si inabissava in pochi secondi. Fra le fiamme e quei poveri ragazzi che si accalcavano uno sull’altro come topi in un cesto. Come un intero popolo che viene tirato giù dai tentacoli fumosi e fiammeggianti del Kraken. Uno spettacolo che non dimenticherò mai.
Tutte quelle persone…Sapemmo solo in seguito che su oltre mille marinai e ufficiali si salvarono in due.
Noi non potemmo avvicinarci che qualche giorno dopo, mentre le acque ribollivano ancora dell’aria emersa dalle stive. Raccogliemmo 237 corpi, gli altri se li portò il Kraken…”
Il Kraken, la stessa figura di mitologia onirica che da secoli popolava gli incubi dei marinai, che univa la loro immaginazione in una identica forma. Quella tentacolare di piovra enorme e famelica in attesa, dormiente, nelle profondità oscure e inesplorate degli abissi.
Howard che pure conosceva questo mostro immaginario, orrida creatura che aveva fatto dei racconti marinareschi la sua personale via di comunicazione, provo un’emozione in più nel sentir definire avvenimento così reale, l’affondare di nave da guerra, come di barca tratta nelle profondità degli abissi dal mostro immaginario.
“Il Kraken non esiste, signore mio, io almeno non l’ho mai visto – rispose a domanda, Rune – . Io credo: è solo il male irrazionale che si manifesta dalle acque e che in esse prende forma. Io la penso così.
Quella sera nel mare dello Jutland quella bestia immonda che ha in sé tutto l’orrore delle miserie e della cattiveria umana, si portò l’Indefatigable e tutto il suo carico di umane passioni. Vorrei tanto che il Kraken fosse reale e avesse carne da trafiggere con la mia fiocina, tentacoli da mozzare con l’ascia”.

Il raccontò di Rune Andre fu la scintilla creativa dell’Howard imbarcato per il ritorno in America. Quella notte, salutato con il calore della riconoscenza quell’imprevisto compagno di viaggio, si ritagliò uno spazio traballante nel sottoscala di una delle rampe per la seconda classe. Alla luce di una candela, immaginò.
Immaginò il suo Kraken, mentre la sua mano correva veloce nello scrivere, i suoi occhi rattrappivano nella luce insufficiente e la sua mente viaggiava, ignorando il freddo atlantico. Una pagina, due pagine, tante pagine.
Pensò a Venezia e raccontò del richiamo della bestia dalla città sprofondata di R'lyeh, del suo agghiacciante attendere in fondo all’oceano. Ritornò a Genova e descrisse la sua progenie nefasta e nauseabonda. La sua schiera di adepti antropomorfi.
Scrisse dei suoi poteri magici che la rendevano padrona delle menti umane. “Soggiornò” di nuovo nel Polesine e parlò della palude melmosa dalla quale aveva avuto origine, che collocò in Missouri. Gettò le basi per decine di altri racconti che sul mito dell’animale tentacolare si sarebbero appoggiati, come castelli sul colle.
Scelse il nome Cthulhu. Come un verso, che è tanti versi. Come la summa ipotetica di tutti gli idiomi su quella nave che era partita da Le Havre. Un nome solo, che avesse in sé il seme di tante razze e tante culture diverse. Un nome che incutesse timore. Il suo timore, in fondo: quello di essere fagocitato dalla massa, inglobato, appiattito nelle schiere delle moltitudini schiave nella mente.
Creò il suo mito.
In una traversata che avrebbe sperato breve e riscaldata e che riscoprì troppo breve e ben poco accogliente negli spazi di fortuna notturni che si scelse per scrivere.

A Coney Island rivide Sonia. La sua Sonia. Lento le sfiorò il viso con la mano, ottenendone in cambio un sorriso. Ascoltò le sue scarne parole di benvenuto e lesse nel suo abbozzo di sorriso che le cose non erano cambiate. Il suo incarnato ormai sfiorito di ucraìna gli parlava di quella passione che li aveva legati anni prima, dei loro ambiziosi progetti di scrittura combinata, del suo cercare una madre, prima che una sposa, di quell’idillio di anime prima, troppo prima, che di talamo.
“A casa delle tue zie è arrivato un vaglia – gli disse, invisibilmente felice per lui – 72 dollari e pochi centesimi”
Per Howard fu l’ultima volta che quella bocca carnosa disse qualcosa di entusiasmante.
Capì subito ciò che di bello era successo che quel denaro spiegava molto di più di qualsiasi frase o parola. Comprese chi gli mandava i soldi, prima che la moglie potesse dire “C’è scritto: Parigi, Ufficio Postale VI° Arondissement, Rue Montaigne”.
Fu come per l’imputato innocente, quando la corte lo riconosce. Fu un attimo. Prima che si rendesse conto nel silenzio di Sonia che quei 72 dollari volevano dire di più. Molto di più.
“Domani devo andare a Providence” Si disse ad alta voce
“Sapevo che saresti ripartito” Aggiunse la moglie, come se l’affermazione fosse rivolta a lei.
Sul molo, la confusione, il vociare sembravano lontani. Come ovattati.
“Come mi trovi” Le chiese come per cambiare discorso.
“Ti trovo bene. Sei dimagrito, ma hai acquistato colore in viso”
“Ho conosciuto tante persone…Una in particolare. Un uomo straordinario. Te ne scriverò”
Sonia lo guardò brevemente, avrebbe voluto dargli uno schiaffo per tutto.
Per quel matrimonio che si spegneva nel silenzio, per quelle promesse reciproche mai mantenute, per quel talento incredibile che non conosceva vincoli e briglie. Tantomeno quelle che avrebbe voluto mettergli lei.
Avrebbe voluto picchiarlo perché lei era lì. Nella sua slava bellezza, corvina e sfiorita. Ma lui le avrebbe scritto.
Howard non si accorse di niente, già preso dai suoi progetti. Nemmeno quando Sonia gli sussurrò: “Nei prossimi giorni partirò anch’io. Mi trasferisco a Cleveland”.
Howard invece era già a Providence. Con la testa e con il cuore. Si disse che quei soldi del maestro sarebbero certamente stati spiegati da una lettera e che nella lettera poteva esserci un sogno che si avvera. Un sogno bello. Di quelli rari, che uno fa fatica anche a confessare a se stesso.

Una settimana dopo, mentre era nello studio a casa delle sue zie, immerso nella correzione del suo “The call of Cthulhu”, vide dalla finestra il lento postino che deponeva qualcosa nella buca delle lettere.
Corse fuori, salutò il vecchio Thomas e prese in mano la busta.
In pantofole, sul vialetto soleggiato, lesse quanto gli scriveva Antoni Gaudì. Lo lesse con il fervore adolescenziale e l’ansia di un innamorato che legge la lettera della sua amata, come chi ha in mano una risposta positiva a una lunga attesa.
Si disse a sera, ritrovata la calma dopo l’emozione, che prima di partire per la Spagna, ancor prima di organizzarsi il viaggio comunicandone le coordinate a Gaudì, avrebbe dovuto completare il suo racconto e non solo.
Avrebbe dovuto tornare a New York dal suo traduttore e chiedergli altri servigi. A questo sarebbero serviti parte dei 72 dollari del maestro e gli sembrò cosa ben strana che l’architetto avesse previsto. Sia il suo dissesto finanziario, sia la sua esigenza di farsi tradurre altro. Sentì, per l’ennesima volta in quelle ore, che Gaudì lo aveva ascoltato profondamente e non solo. Aveva letto in lui molte più cose di quelle che Howard stesso, avesse potuto raccontargli in quella breve passeggiata fino all’albergo.
Si disse, con una punta di compiacimento, che tutto questo capire non era un caso, ma il frutto semplice e immediato dell’intelligenza di un uomo che era sempre, perennemente, un passo avanti agli altri. Si sentì onorato di aver suscitato l’interesse di un tale personaggio, prima di tornare al motivo del suo incontro parigino con Gaudì.
Howard rilesse più volte la lettera di Antoni e colse il senso più profondo della sua scelta di avocarlo a sé. Non fu per le analogie fra la sua descrizione e l’inquietante splendore di Casa Milà, non fu per la sua “parola d’onore” e nemmeno per il suo talento, che pure Antoni aveva tacitamente riconosciuto fra le righe e nemmanco per quei “gufi” sui tetti di Milà.
Fu per il credere che un plagio della casualità potesse esistere. “Forse Antoni – ammise Lovecraft sotto il bersò delle sue zie – è stato egli stesso vittima di episodio così. Forse conosce la mia frustrazione. Forse ne è, o ne è stato egli stesso vittima…”.
Riguardo ai progetti che “l’architetto di Dio” potesse avere per lui, alla collaborazione che gli sarebbe stata richiesta, Howard ne intuiva a spanne la logistica, ma davvero non ne conosceva l’oggetto. Sapeva che gli sarebbe stato chiesto di scrivere, di descrivere, di immaginare, di vaneggiare forse. Ma non sapeva “cosa” o “per cosa”.
Di Antoni Gaudì conosceva Casa Milà, la “sua” casa, ma non conosceva altro delle sue opere passate e presenti. Scoprì, intimamente, che quell’ignoranza era stata il frutto di una scelta precisa, come un rito scaramantico, inevitabile per chi sogna di poter agire e concepire insieme a una tale personalità, partendo a sua volta da una mente votata al sogno, al piegare l’immaginazione.
Sapeva che i canoni di Antoni erano ispirati a Dio e a lui indirizzati.
Ma non sapeva quanto, questa dedizione, si fosse spinta verso ardite dimensioni.