giovedì 21 maggio 2009

L'occasione della forma 21^ - Come la spiaggia al mare


Fra le prime casette a schiera della periferia, nel buio illuminato di quella notte qualsiasi, senza data, Howard continuò a farsi cullare dall’abbraccio della sua città. Si concesse il primo vero abbandono della sua vita, dopo tanti anni. Come se l’istinto che porta ciascuno a godere di un proprio posto segreto, in quanto casa, protezione, “scrigno di segreti” in lui non avesse avuto albergo. Non avesse germinato. Fino ad allora.
Come un bambino, lui non ne aveva conoscenza e, proprio come un bimbo, ne godeva nell’istante stupito in cui percepiva quel calore sommesso e invasivo che lo scaldava. Allontanando per un attimo il suo sconcerto. Magari solo per un attimo.
Cosa strana la vita, qualche volta – avrebbe, poi, scritto sul suo taccuino -. Sembra che qualche volta nel momento cui ti toglie e ti costringe a terra, ti da anche lo strumento per farti più forte a sperare di rialzarti…”
Mentre rientrava a casa, ormai nel pieno di quella sera di primavera, le cose cambiarono infatti. O meglio: mutò la sua percezione di quanto tutto era cambiato. Nel proprio istinto. Era quella banale Providence il suo posto segreto. Il luogo che da sempre aveva provato a cingerlo di vera protezione, la stessa verso cui ciascuno tende, quando ha motivi di paure, rabbia. Bisogno di confrontarsi con qualcosa che rimane, in fondo, fedele a se stesso. Come una città, una montagna, una casa nel bosco dell’anima.
Si sentì veramente a casa. I profumi erano i suoi, le strade, le staccionate. Sì, certo Providence era cambiata molto in diciotto, venti anni, ma non importava. Suoi erano i rumori, gli effluvi, le sensazioni. Gli stessi di sempre. Di allora anche.
Lì era a casa, la sua “vera” casa. E se c’era un posto dove tutto poteva essere accettabile, o comunque “arginabile”, questo posto era lì. Un luogo che lo proteggeva da sempre che ne aveva cementato i ricordi, forgiato la propria essenza più profonda, testimoniato della sua crescita. In qualsiasi direzione essa si fosse poi sviluppata. Lì, fra quelle case illuminate di sera, in quelle vie ordinate, in quel silenzio ventoso che ti parla di natura che si riappropria, di famiglie a cena, di calore domestico celato alla vista degli estranei, lì poteva. Poteva sentirsi un po’ più forte, un po’ più resistente alla spinta del ricordo che quel ritorno oppressivo, mentre lo liberava, gli faceva affrontare, oltre le soglie più dolorose del suo vissuto. Di quello che nemmeno Howard riconosceva più, tanto era stato sepolto nel suo animo.
Quella sensazione di piacevole scoperta, di protezione era una tregua, solo una tregua di spiegazione. Lovecraft lo sapeva. Era come se, all’inizio di un gioco, ti fossero spiegati obiettivi ma non solo: gli avversari da sconfiggere e gli strumenti a disposizione per farlo. Dalla sua lo scrittore aveva quei luoghi, ora ne era certo, aveva poi il suo strano coraggio, di “uomo che può non sentire”; aveva la sua forza d’animo. Dall’altra c’era tutto. Tutto quello che non aveva vissuto in quanto palpitante essere emozionabile, tutto il dolore, l’angoscia, la rabbia che non si erano sfogate negli anni, nascoste come polvere sotto un tappeto spesso. Dall’altra parte, come avversari ridicoli e beffardi, c’erano anche i suoi stessi mostri antropomorfi. Gli stessi che aveva desunto dal suo malessere nascosto e tratto su carta, in fulgide e memorabili descrizioni.
E’ vero - si rassegnò poi, banale - Nulla si crea, nulla si distrugge. Gli si può solo cambiare forma in forza di una descrizione, di una creatività che se attinge dentro di noi, si poggia solo sul nostro vivere. Sulle nostre emozioni. Non si può cancellare l’emozione, annullarla, arginarla…
Forse fu quello il momento in cui la tregua finì. Di schianto. E il “gioco” riprese. Più spiazzante e vorticoso di prima.
Bastò poco, solo il gesto istintivo, mentre realizzava tutto questo, di spegnere il suo sorriso beato e impercettibilmente serrare i pugni dalle dita affusolate. La percezione fu quella di umidità. Di sudore, di emozione che rende le mani madide.
Le proprie mani madide. Quelle che lo avrebbero accompagnato sempre, nei momenti di emozione da gestire nell’attimo.

“Howy vai di corsa a lavarti le mani. Non fartelo ripetere, altrimenti tua mamma se la prende con me. Poi io me la prendo con te…” Zia Lilian sapeva come prendere Howard. Sapeva di avere delle armi importanti nei suoi confronti e non disdegnava di usarle. Di tanto in tanto.
“Fra due ore, saranno tutti qui. Se fai in fretta e torni pulito, possiamo giocare insieme…Ci diamo agli origami”
Quel pomeriggio gli aveva dato una scompigliata ai capelli e un buffetto sulla guancia, poi si era sforzata di diventare seria e aveva indirizzato a quel dodicenne magrissimo un indice serentore.
Howard era rimasto a guardarla per un istante, poi era salito di corsa. Verso il bagno.
Era già abbastanza alto per arrivare comodamente alle manopole sul lavandino, girarle e infilarci sotto le mani. Quindi, con un pettine d’osso bianco, si era bagnato i capelli, dividendoli sulla fronte, come Mosè che separa le acque.
Si era dato un riordinata alla camicia ed era sceso di nuovo.
“Zia Lilian? Zia Lilian?”
Zia Lilian, la moglie di suo zio era qualcosa in più di una parente acquisita e qualcosa in meno. Non contava l’affinità, nemmeno quella convivenza saltuaria, ma sempre più frequente che in quegli anni pervadeva la casa dei Lovecraft, c’entrava invece la pubertà di Howard nel primo vero contatto ludico con esemplare dell’altro sesso, in grado di interagire con lui, di porgersi come amico, amica e qualcosa d’indefinito per le membra e il sentire del ragazzetto con le gambe ossute. Quando Zia Lilian era a casa, Howard metteva da un po’ di tempo sempre più cura nel suo aspetto fisico. Le pettinate compulsive ed energiche sui capelli biondicci, a sera, duri a piegarsi, lo strofinarsi del viso al mattino, la cura nel lavaggio dei denti erano operazioni che in quei mesi cominciavano ad avere un senso diverso. Un significato, una spinta che sfuggiva alla comprensione di quell’adolescente ancora troppo bambino. Almeno nell’aspetto. La storia, anche questa, era vecchia come il sentire infantile di ciascuno che svolta verso una sana direzione di virilità, ancora prossima a essere imboccata. Zia Lilian, con il suo girovita etereo, le sue gonne lunghe, le sue braccia sottili ed agili era soltanto un’apripista. Un volto gradevole nel suo biondo cenere dagli occhi azzurri, una figura sorridente e leggiadra nel suo porgersi. Mai sopra le righe nei rimproveri, mai sotto, nella complicità dei momenti ricreativi che la donna regalava a quel nipote solitario, l’incarnazione forse di una maternità ancora lontana dal mortificarla. Giovinetto che si aggirava in un mondo di grandi e che troppo si chiudeva in se stesso, con il mento proteso chissà dove.
Non c’era spazio per altro nella mente di Howy nell’interazione con Lilian, non c’erano curiosità, né pudori, nemmeno l’idea stessa di qualcos’altro oltre ai giochi, ai ritagli di figure nella carta, alle corse nel giardino di casa. Niente che per un dodicenne potesse essere compreso, accettato, valutato.
“Zia Lilian? Zia Lilian?”
Quel pomeriggio Howard, con le sue mani pulite e asciugate, con la sua scriminatura centrale, ricavata a fatica su capelli ammantati di bambino che gioca troppo da solo, girò parte della casa sempre più curioso e affannato, come chi intuisce di essere tratto nel gioco all’improvviso, e di essere chiamato a gestirlo. Come un adulto che s’impegna a nascondino, ma non è chiamato a nascondersi.
Howard scelse quindi, quel pomeriggio, la strada del silenzio per quella zia che voleva giocare con lui. Si sforzò, sorridente e beato, al mutismo, si aggirò come un micio in cerca di spunti alimentari, fra il soggiorno e le sue madie, i due studi e le ampie librerie, il guardaroba e i suoi anfratti più nascosti, il sottoscala polveroso e buio, l’enorme cucina con le sue credenze intagliate, i tavoli pesanti e il bagno principale. Di un candore luminoso.
Fu all’altezza del bagno di servizio che qualcosa cambiò inevitabilmente, come con un colpo secco che ruota e avviluppa il corpo glabro di un ragazzino, lo scuote di brividi, lo innalza levitante, lo abbatte ripiegato, lo rende turgido all’istante per quel flusso vitale che pervade i suoi genitali inconsapevoli. Eppure in grado, ora, di gridare alla vita, a parte della sua essenza carnale, così terrena da strapparti all’adolescenza e annunciarti e spiegarti, solo per quello che puoi capire, della tua natura. Di giovanissimo uomo, di maschio. Di quello che sei e non potrai, ne vorrai, mai cambiare.

Bastò una porta socchiusa, un triangolo di luce che si flette e si allunga sul parquet invecchiato. Due occhi giovani che salgono silenziosi, una figura di ombra che interrompe un gioco. Howard vi si appoggiò inconsapevole, celandosi d’istinto più che di malizia, nel silenzio profumato di una donna, sua zia, che stava.
Seduta sul bordo della vasca con una gamba appoggiata allo sgabello bianco, con la gonna in vita e le sue mani. Affusolate ad accarezzarsi le caviglie, le gambe, le cosce. A sistemarsi le sue calze bianche fino al bacino, dove il rosato della sua carne compariva, come la spiaggia al mare. Movimento di leggerezza e involontario candore malizioso che scoprì al giovinetto un mondo nuovo. Per la prima volta consapevole. Di cos’è donna, come altro da uomo. Di cos’è pulsione, com’è altro da controllo.
Fu una sensazione che gli uomini conoscono bene, per quanto il loro vivere e il loro vissuto finiscano poi in molti con il diluirne il ricordo, fra cento corpi e cento situazioni diverse, che si confondono fra loro, sovrapponendo e proiettando ombre indecifrabili al loro sentire di adulti.
Howard rimase silenzioso ad affrontare quell’immagine di femminilità nuova e incalzante, a gestire quell’annuncio di virilità emergente e prorompente, perché frutto visibile di una giovinezza di membra, di carne, di anima, magnificamente nuova al proprio percepire. In tutto il suo sconcertante fiorire intimo.
Rimase lì qualche secondo, appoggiato al muro con la luce che gli affettava il viso, gli occhi lucidi di desiderio incomprensibile, le labbra umide e quella sensazione di vigore al bassoventre. Prima di correre via con quell’immagine di zia Lilian nel corpo, la velocità di un topolino di campagna che fugge alla vista e le sue mani. Mani di giovinetto emozionato da naturale e sconosciuto pulsare. Mani madide per quell’emozione ingestibile, incontrollabile. Mani serrate in pugni umidi, così lontane dalla violenza, così vicine a quel certo tipo di amore.
Quel giorno Howard non ebbe animo, ne pensieri per giocare con zia Lilian, ignara, che lo cercò invano, una volta fuori dal bagno di servizio.

Fra le case di Providence quella sera, Lovecraft si fermò un istante solo, mentre il suo passo già da minuti era diventato un incedere lentissimo, quasi a voler dar tempo al suo avversario di prendere bene la mira durante un duello alla pistola. Un gesto di coraggio e stupida “cavalleria” incomprensibile per chi, come Howard, sapeva bene che non era finita lì e che il suo “nemico”, l’avversario dal quale quei luoghi solo in parte potevano proteggerlo, aveva ancora molto con cui spaventare, annichilire, abbattere. Si fermò solo per guardarsi le mani, far scivolare consapevolmente le dita sui palmi, percepirne l’umidità contraddittoria, in quel fresco ventoso. Era il sudore di mani emozionabili come il suo essere, mani che da sempre manifestavano ciò che la sua mente, il suo cuore, nascondevano sedimentando. Affastellando istericamente. Mani sincere con se stesso. Da sempre e malgrado tutto.

Stai male vero Howy?…Appoggiati a me. Tutto questo ti sarà di aiuto, io credo. Sarà il nostro segreto…”

Howard credeva in quegli anni che il cuore di tutti gli uomini del mondo fosse uguale al suo. Pensava che quel calore intenso che proveniva dal suo, quelle emozioni rampicanti che gli cingevano la gola ad attimi e gli toglievano il respiro e che da quello nascevano, fossero uguali per ogni essere umano. Per questo ne aveva rispetto, per questo giudicava che ogni persona aveva, profondamente, pari dignità. Per il rispettivo credere, amare, emozionarsi. Ne era convinto al punto da considerarsi parte della massa. Uno fra tanti, senza alcuna distinzione ed in essa trovarvi riposo, come una pace di consolazione, al pensiero di non essere unico.
Era così giovane, così diverso dall’allampanato uomo che aborriva, ora, il diverso da se’ e che si considerava radicalmente unico, particolare. Senza per questo pensarsi migliore. Semplicemente alieno. Al comune sentire, al generale agire.
Lui si era voluto così, si era costruito in questo modo per proteggere il proprio talento sbagliato, per dare radici di vera originalità al suo scrivere, per cancellare il dolore, la rabbia, l’angoscia.
Che scempio orrendo ho fatto di me, di che cosa mi sono privato, che vita ho vissuto? Se Charlie, tu potessi vedermi ora, che cosa proveresti? Ameresti me? Avresti voglia di appoggiare il tuo capo sul mio petto? Perché io questo sono stato. Ho distrutto quello che ero. Ho sacrificato la mia anima..Vorrei chiederti perdono. Perdono. Perdono.”

Sì, il perdono. Davanti alla casetta a due piani dei Winthorpe, omai non lontano dalla sua, fermo in mezzo alla strada a osservarne il prato inglese che papà Abram da sempre curava con attenzione maniacale, Howard fece un altro scatto indietro, percuotendo se stesso, questa volta con il cilicio dei suoi mostri immaginari, di quelle figure melmose e maleodoranti che emergevano dal suo inconscio e lo cingevano, senza toccarlo. Quasi riconoscessero in lui quel padre putribondo che li aveva concepiti. “..Non può un essere mostruoso, per quanto crudele e orrendo, e viscido possa essere, divorare il suo padre, fare brandelli di quelle carni dal cui seme è stato generato..Non può. In virtù di questo io non devo averne paura. Questa dev’essere la mia strada… Da qui io continuo il mio percorso…”
Le sue lunghe mani sudate, i suoi occhi impazziti e fissi sulla veranda dei Winthorpe,una veranda qualsiasi in una sera qualsiasi, annunciarono l’arrivo ondeggiante della creatura più orrida.
Malgrado il suo scrivere, le sue paure, il suo generare sempre e in continuazione, Lovecraft non poteva sapere che sembianze questo avrebbe avuto, che rantolo sommesso, che occhi ipnotizzanti. Sapeva solo da dove sarebbe venuto. Lo attese così, come si aspetta qualcosa di inevitabile, perché lo cerchi e sai, ora, dove cercarlo.
Sarebbe giunto da un dondolo bianco su una veranda bianca, in mezzo a vasi di fiori, davanti a una casa che non c’entrava nulla ma che sembrava tanto quella di una infinità di anni prima. E quindi lo vide, con la sua forma di piovra assatanata, i suoi tentacoli sguscianti e lucidi, i suoi occhi neri come il buio dell’anima dopo certi gesti di rabbia, in un iride gialla come orrendo fango chimico. Il suo rantolo sbuffante di effluvi disgustosi ne prese il fiato, lo rese agonizzante in un singhiozzo di schifo e rabbia…Il suo kraken era quello, dunque. Il suo mare era Providence, il suo male, se lo portava dentro e quella creatura immonda era lì per questo. Disegnata da lui, evocata da lui.
Howard Phillips Lovecraft non ebbe paura mentre quel sogno mostruoso ad occhi aperti lo cingeva con le sue propaggini gelatinose, mentre il proprio corpo s’irrigidiva solitario e ritto nella notte e le sue mani sudavano copiose. Ancora e ancora.
Non ebbe paura. Prevalse la consapevolezza di essere “padre” e “madre”, la certezza di avere tanto sbagliato fino ad allora, di aver nascosto, occultato. Di aver nutrito d’ipocrisia ogni suo gesto razionale nella profonda follia della sua anima. “Prendimi allora

Quelle sere non c’era consolazione per Howard, non c’erano parole, ne immagini. Solo il suo sguardo perso, il suo corpo in grado di alimentarsi appena, di muoversi con movimenti mnemonici e ripetitivi. Alzarsi dal letto, trascinarsi in bagno, uscire dal bagno, vestirsi, fare colazione, appoggiarsi al dondolo sulla veranda, chiudere gli occhi, lasciarsi cullare. Con quel cigolìo sommesso che sa tanto di primavera, anche quando dentro è inverno. L’inverno era quello, gelido, dell’assenza di Charlie che scompariva piano, troppo piano ancora per permettergli in quei giorni di tornare a una vita normale, almeno nell’apparenza. Era questo l’inizio di un percorso per il giovane Lovecraft tornato dall’ospedale dopo la morte della sua donna, un lungo cammino di errori, di spine staccate, di corrente vitale che non fluisce più o che fluisce ma viene canalizzata dove non serve a vivere. Il momento in cui il volto della giovane Ripple scompariva piano, sedimentandosi nel suo cuore, lasciandogli solo un vacuo e perenne calo di energie ed uno sguardo perso.
Erano passati solo tre giorni dal suo ritorno ed a Howard era concesso questo strano atteggiamento, in virtù di quel dolore che si portava stampato nei gesti, più che in un volto stranito e assente. Nessuna domanda gli fu rivolta dalle presenze femminili, invasive in quella casa. Nessuno che potesse aprire le porte di una confidenza che non c’era e non ci sarebbe mai stata. Nell’affetto profondo di sua madre, delle sue zie. Perché se non semini quella quando c’è il sereno, non si può davvero raccogliere quando il cielo diventa buio e la grandine comincia a picchiare tutto.
Era quella l’ultima sera che il volto di Charlotte Ripple avrebbe avuto un corpo, giovane e desiderabile. Sano e candido negli amplessi che giacevano nella memoria di Howard. L’ultima sera, tre giorni dopo la morte della sua compagna, che Howy se la sarebbe ricordata per come era. Bellissima e forte. Nell’amore come nella parola.
Era una visione che gli faceva male, un male sordido, autolesionista, viscerale. Che non avrebbe più provato. Non perché non volesse o non avrebbe voluto, in quanto prezzo da pagare per accompagnarsi ancora all’immagine della ragazza che amava, ma perché c’era qualcosa in attesa per lui.
Quando erano da poco passate le dieci di sera. Howy avrebbe atteso qualche ora ancora sul dondolo cigolante. Avrebbe scorto in strada mister Levy sulla sua bici che rientrava dall’acquedotto, avrebbe saputo che era mezzanotte. Sarebbe andato a dormire.
Poi la guardò sbattendo lentamente le palpebre, mentre si sedeva accanto a lui. Soffio femmineo dal movimento delicato, come una canna al vento che si piega leggera, flettendosi su di te. La osservò con quel poco di serenità che gli rimaneva e non rifiutò quel capo che si appoggiava alla sua spalla, restituendo il gesto dopo qualche minuto di silenzio.
“Stai male vero Howy?…Appoggiati a me. Tutto questo ti sarà di aiuto, io credo. Sarà il nostro segreto…”. Gli fece lei accarezzandogli i capelli.
Lui non rispose, chiuse gli occhi e attese. Aspettò che quel nodo al centro del petto che piano si stava adagiando nelle cavità più nascoste della sua anima, salisse infine verso la gola invertendo la rotta. Verso la bocca, gli occhi. Attese di poter piangere, di potersi sciogliere copioso, di voltare tutto quel nascondere innaturale e lacerante. Per il suo futuro di uomo.
Fu un attimo. Un gesto semplice che non gli fu concesso.
Zia Lilian, la bellissima Lilian delle sue percezioni di bambino che si annunciava maschio. La zia dei suoi giochi e delle complicità mai confessate era lì, accanto a lui ora.
“Non dire nulla Howy..Non dire nulla, sarà il nostro segreto” La sua mano prese ad accarezzarlo innaturalmente. Dopo i capelli il collo, il braccio, fin giù. Al suo bacino.
Nel momento in cui le due bocche s’incrociarono, Howard chiuse gli occhi, vacillò pulsante, immaginò Charlie. Confuse il suo viso nel dolore, in quell’annuncio di piacere che era come cibo senza spezie, rosa senza colore. Poi sganciò la mente e si fece portare nel capanno degli attrezzi, mano nella mano. Fu come sedersi a una tavola imbandita se non hai fame. Come prendere il corpo nudo in calze bianche di una donna che non era la sua, come abusarne in gesti di un istinto animale che Charlie non aveva conosciuto, nei sospiri ritmici e chiassosi di quella donna biondo cenere, protesa innanzi a lui con occhi languidi e parole incomprensibili, profuse da bocca femminea che sa cosa cercare nel buio. Di cosa cibare la propria voluttà carnale. Nel silenzio di gemito di Howard che si concedeva a tutto ciò che non era amore, solo blocco e sfregio al pianto inespresso. E godette appieno della bella Lilian, mai più così eterea e misteriosa come nel bagno di servizio anni prima, mai più così carnale, come giumenta imbrigliata da mani e membra di uomo che non è uomo. Ma solo progetto interrotto di questo.
Quando il suo seme denso e copioso proruppe la terza volta sulla schiena di Lilian, Howard gemendo aveva separato già da ore le due vie della natura che sono in ciascun uomo. Che corrono attigue e parallele, fino a quando la vita stessa nell’assenza di una Charlie non le separa.
Esse non diventano che strade indipendenti che si divaricano nell’estistenza, salvo poi incrociarsi di nuovo e rendersi complementari nei più fortunati. In quelli che hanno coscienza di ciò e un volto, un corpo di donna con cui legarle. Attigue, parallele e complementari. Di nuovo.

Cancellato il volto di Charlie, ricacciato giù definitivamente quel conato di pianto liberatorio, Howard divenne ciò che era ora. Un essere monco. Di emozioni, di vita, di pulsioni reali. Evirato di passione. Dissociato il suo corpo dal suo cuore, il suo agire, dal suo sentire. Nel momento più delicato, per una scelta che non era stata una scelta, nella bellezza lasciva di una notte. Una sola notte con Lilian. Uno stupro della propria anima, perpetrato da due corpi che si univano, in virtù di pulsioni così diverse, così sbagliate.
Possono due persone violare, insieme, una sola anima, ignara e indifesa?”
Fu nel momento in cui Lovecraft realizzava tutto questo, che il suo kraken viscido allentò la spira di quella stretta tentacolare e lo lasciò come lo aveva trovato. In piedi in mezzo a una strada deserta nella sera di Providence, davanti alla casa dei Winthorpe, “gemella” della sua casa di famiglia, ma senza quel capanno degli attrezzi, alcova disgustosa ora alla sua coscienza, alla sua nuova percezione di se.
Sudato nei suoi pantaloni alla zuava, in preda a quel panico sommesso, che ti parla di errori, di sbagli, gli ennesimi. Di una vita che a 36 anni era davvero stata spesa male, in quasi ogni direzione. Ma non era il male dello sbaglio a percuotere ora Howard. Era solo lo sconcerto di un ricordo che era riaffiorato, il più materiale e concreto, così lontano da Charlotte, così diverso dalla morte che aveva sfidato con la faccia in un vaso da notte. Un ricordo di errori tanto antichi, come le pulsioni umane di cui qualcuno ti ha dotato, ma che non devi assecondare, perché farlo ti allontana da te stesso.
Howard aveva ceduto alla bellezza lussuriosa di sua zia, aveva profanato il suo agire intonso fino ad allora, aveva divaricato col forcipe della sua libidine quelle due vie che si erano tenute adiacenti e parallele nell’amore sano, infinito per Charlie. Era successo, aveva solo diciotto anni, solo diciotto anni.
No, non si sarebbe mai perdonato, non aveva giustificazioni, ma non gli importava. Di quegli amplessi perpetrati in quell’incesto, non erano quelli lo spesso martello che picchiava sulle sue ormai deboli certezze. Era solo Charlie, l’offesa che aveva recato al suo riflesso nella propria anima, il tradimento, l’ennesimo, delle sue ultime parole. Lo squarcio al proprio “talento” che non era lo scrivere, il creare, il raccontare. Ma il sentire, il provare, l’amare come istinto dell’anima unito al desiderio carnale.
Charlotte Ripple per il suo giovane uomo avrebbe voluto che la vita continuasse, che ci fossero altre donne amate come lei, dello stesso “talento”, dono prezioso di chi sa spendersi senza limiti per ciò che ama e desidera. Identico oggetto di un medesimo agire. Non così, non in un capanno degli attrezzi a consentire che la carne fagocitasse tutto. Il volto del suo primo e unico amore e le sue emozioni passate e future, in quanto espressione massima della sensibilità di quello che sarebbe diventato un uomo non comune. Nel bene immenso delle sue potenzialità, nel male gelido del suo reale.

Quella passeggiata lunga un pomeriggio e una sera intere non si sarebbe ancora conclusa. C’era un’ultima tappa, incrostata su quel percorso ormai decifrabile. Portava dritto alla sua casa, ormai vicino alla notte. Howard vi arrivò stanchissimo, aprì la porta d’entrata, non prima di aver pulito bene le scarpe sullo zerbino, quindi andò nel suo studio che era ormai quasi la mezzanotte. Si sedette alla propria scrivania e si voltò, spalle alla porta, verso la vetrata in giardino. Dallo spiraglio della tenda, osservò alla luce dei lampioni uno spicchio di prato inglese, la staccionata, la strada e oltre. Le case di fronte, con ormai pochissime luci accese. Come quella della sua lampada a olio. Attese determinato e sentì. Sentì i suoi passi inconfondibili. Ascoltati centinaia di volte negli anni, nelle notti di insonnia.
“Howard, sei tu?”
“Sono io, Zia Lilian…”
“Hai fame?..Sei stato fuori tutto il giorno, dove sei stato?” Zia Lilian era ormai una donna anziana e raggrinzita, ancor più severa nell’aspetto, da quando aveva perso il proprio marito. Nulla a che vedere con la bellezza sobria e intrigante dei suoi trent’anni, tonici e avvolgenti.
“Siediti zia Lilian. Qui, di fronte a me..” Lilian spense la sua lampada e si sedette sulla poltrona di fronte alla scrivania di Lovecraft. Un po’ stupita, già inquieta.
“Zia è ora che ne parliamo…” Aggiunse Howard guardandola con aria serena.
“Cosa Howard? Dimmi…” La sua voce tradì solo un fremito impercettibile.
Lo scrittore trasse un sospiro greve e poi: “Il capanno degli attrezzi zia.. Diciotto anni fa” . Disse.
“Non capisco Howy” Il suo occhio si fece vitreo, la sua bocca rimase tesa.
“Capisci bene, zia Lilian. Voglio solo sapere cosa ti ha spinto. Perché ti sei comportata così?”
“Howard, non mi piace questa cosa. Non capisco a cosa ti riferisci” Abbozzò un’aria di preoccupato compatimento
“Non capisci, zia Lilian?”
“No, Howard, non capisco davvero”
“Capisco io zia Lilian – argomentò calmo, solo in apparenza – capisco i tuoi nei sul ventre, intorno all’ombelico e…”
“Howard Phillips Lovecraft! –la donna in vestaglia si mise in piedi di scatto, alzando la voce – Che sconcezze racconti?!”
“Sconcezze? E’ il tuo corpo zia Lilian. Lo vuoi negare?”
“Io…Tu hai bevuto Howard o hai perso il senno!” Con uno scatto aggirò la scrivania e si avviò verso la porta.
“Tu neghi, ma eravamo in due quella sera..Dimmi solo: perché?”
“Io non ho niente da dirti Howard. Tu sei un abominio…Proprio con me, che ti ho sempre difeso e amato. La tua scrittura Howard. Io ho difeso anche quella…Ora questa offesa immonda. Pregherò Dio per te, per questo parto della tua fantasia”
“Pregare zia Lilian?”
“Sì, pregare! Pregare! Pregare!” Si era fermata davanti alla porta dello studio, agitando il capo in quell’urlo sommesso.
“Non c’è nulla e nessuno da pregare. Io avevo bisogno, tu mi hai dato. Ma non era quello che cercavo…Hai sbagliato zia Lilian, mi hai fatto male. Anche io ho sbagliato”
“IO NON HO SBAGLIATO. IO NON HO FATTO NIENTE CON TE” Urlò di rabbia, uscendo dallo studio, mentre per le scale che portavano al secondo piano si udirono i primi singhiozzi celati alla vista.

Howard rimase solo nel suo studio poco illuminato. Restò lì con tutto il suo stupore. Così intenso, così ingenuo . Di fronte al percorso di quella giornata.
Si disse che l’ipocrisia ottusa di zia Lilian rappresentava una degna conclusione. Come un cerchio che si chiudeva sulla sua persona e gli avrebbe permesso, forse, di vedere la sua realtà in nuovo modo. Non importava del dolore. Non importava davvero. Quel pensiero non fu semplicemente il suo "premio di consolazione".

martedì 12 maggio 2009

L'occasione della forma 20^ - Solo un equivoco


Quella mattina Howard uscì tardi, recuperando a fatica un aspetto normale, dopo essersi bagnato gli occhi più volte nel vano tentativo di cancellare quel rossore intorno all’iride, di togliere le tracce di quel pianto sotto il lavabo. Si vestì sportivo, senza più badare alle sue unghie. Si prese una vacanza da tutti i suoi impegni, dal “circolo”, dalla scrittura, dalla propria presenza in quella casa che gli stava così a cuore, dalle sue zie, Lilian e Annie. Che lo amavano così tanto da risultare irrispettose nei suoi riguardi. Invadenti perfino. Ma a Lovecraft, infilata la porta verso mezzogiorno, di quell’invadenza importava davvero poco e non fu per sottrarsi agli sguardi apprensivi che decise di passare fuori il pomeriggio, fu perché, una volta imboccato un percorso, per quanto doloroso o rovinoso fosse, sentiva di dover continuare, di dover procedere e chiudere i conti. Di qualsiasi entità questi si fossero rivelati. Così uscì nella sua Providence, ma fu come se fosse tornato in quella piccola città per la prima volta in più di vent’anni, come se ora guardasse il suo paese da un’altra prospettiva. Non più con gli occhi dell’adulto, dello scrittore di nome che non riusciva a monetizzare, con l’occhio distratto e vuoto dell’abitudine, bensì con lo sguardo incantato di chi, ad ogni passo, rivedeva gli anni trascorsi, il trasformarsi delle case che si affacciavano sui vialetti, il crescere delle betulle, il modificarsi dei mezzi e dell’abbigliarsi delle persone. Ogni passo un cambiamento, ogni angolo un motivo per ragionare e stupirsi, di tutto ciò che in vent’anni non aveva notato. Sapeva dove questa passeggiata doveva portarlo.
Verso il mezzodì si sedette quindi sotto una certa pianta, su una collinetta che dominava la corta vallata di Providence, in mezz’ora di passo spedito con i suoi pantaloni alla zuava che lo facevano sembrare ancora più allampanato, aveva superato tutti gli ordini di case e poi, sudato, si era adagiato sotto quella pianta. Che era la stessa del suo amore con la giovane Ripple. Una betulla ormai alta e forte che assicurava un ombra ancor più densa rispetto a 20 anni prima. Era da quel pomeriggio che non si recava in quel posto, quasi lo avesse dimenticato, quasi fosse davvero riuscito a staccare quella spina per così tanto tempo. Invece no, quella spina era rimasta lì, inserita, forte come e più di prima. Solo i ricordi, affastellati uno sopra l’altro, ne avevano celato alla sua anima, tutta la sua forza. Ora che il conto si stava chiudendo, Howard poteva stendersi rassegnato sotto quel legno bianco, quelle foglie generose. Non sentiva dolore, provava solo una sana e vivida commozione. La stessa che si era negato per anni. La stessa che rende gli uomini più fragili sul momento forse, ma più forti nel tempo, perché poggiano il loro vivere quotidiano sul proprio vissuto. Accettato per intero. Senza staccare di spine. Mutilazioni di sentimenti ed emozioni.
Howard Phillips Lovecraft, scrittore di romanzi orrorifici, per una volta decise di essere un uomo, semplicemente, e di dimenticarsi di tutto il resto. Pianse per Charlotte ventidue anni dopo, pianse per sé, pianse per quegli angeli che non erano scesi a poggiare una mano sulla sua amata, su di lui. A salvare la sua futura moglie, a salvare lui dal suo destino arido e bizzarro, seppur creativo oltre ogni limite. Pianse e pianse ancora.
“Già – si ripetè poi amaramente – il mio destino di scrittore di genere…”. Mentre i suoi occhi si facevano sottili come linee incomprensibili sul suo viso arcigno dal mento sporgente, Howard pensò, ora che se lo poteva permettere, di scendere fino alla radice della sua creatività, componendo il suo talento, tassello dopo tassello, come mattoncini di una costruzione per bambini. Chiuse gli occhi al sole di Providence, in attesa che una nuvola passasse quindi, sganciò i suoi pensieri e si abbandonò ancora. Voleva capire se stesso. Fortissimamente voleva.

Un colpo di tosse aveva percosso il suo corpo snello ai limiti dell’emaciato. A 18 anni Howard era talmente magro che le sue zie quasi si vergognavano del suo incedere dondolante. Lilian si affrettava sempre, negli spazi che la madre del ragazzo gli concedeva, a ricoprirlo con abiti imbottiti d’inverno e maglie d’estate. Il giovane Lovecraft non era certo una bellezza, da ragazzino addirittura il suo aspetto fisico così originale, ne aveva causato una certa emarginazione fra i coetanei. “Ostracismo” che Howy aveva superato bene, un po’ per l’abbraccio sin troppo affettuoso e avvolgente dei suoi familiari, un po’ per certa tendenza a vivere tutto ciò che lo riguardava con un radicale distacco. Forse la stessa naturale predisposizione che avrebbe fornito la base per quella successiva freddezza.
Tuttavia il giovane Lovecraft aveva qualcosa nel suo porgersi, qualcosa che lo rendeva davvero speciale. Nei modi garbati, ma non solo. Nel suo estraniarsi durante le conversazioni che lo portavano a perdersi nel vuoto con lo sguardo e lo facevano sembrare davvero dotato della possibilità di passare nel suo universo parallelo ad uno schiocco di dita. Le sue zie non erano mai tenere nei commenti serali. Forse solo Lilian lo considerava speciale nel modo giusto, le altre donne, compresa la madre, semplici e timorate di dio, disperavano di farne un impiegato modello, piuttosto che un professionista quantomeno di discreta fama. Tutte, comunque, erano concentrate su di lui. Come api operaie attorno alla regina.
Dopo la tosse fu la volta del vomito che agitò Howard per una notte intera. Fu una notte dolorosa fisicamente, poche settimane dopo la morte di Charlie Ripple, d’un male carnale che si associava a quel malessere sotterraneo del cuore, ormai sprofondato nella sua anima come un castello che s’inabissa nel mare. Tornato a casa dopo tre giorni di assenza, aveva incrociato gli sguardi di sconcerto delle sue zie e di sua madre che non avevano chiesto. Già sapendo.
Gli accudimenti di queste nei giorni successivi al suo ritorno si erano fatti più assidui, ma stranamente più discreti. Come se il talentuoso Howard fosse diventato uomo anche ai loro occhi che , sapevano nonostante l’aridità del loro vivere da zitelle e vedove, quanto un grande dolore potesse far crescere un ragazzo che diventava adulto d’un colpo.
Poi quella notte i primi colpi di tosse e la successiva il vomito, mentre di giorno, alla luce del sole, il suo viso era appassito subito, venendo ad assumere il colorito olivastro e innaturale di essere altro da sé. Un’ulteriore beffa per quell’aspetto fisico, davvero privo di slanci gradevoli.
Quella notte Howard capì che il male della sua anima doveva attendere ancora, anzi. Avrebbe dovuto essere sopito, cancellato, nascosto il più possibile, dal momento che prove più impegnative per il suo sopravvivere lo attendevano.
Quel bacio, naturalmente appoggiato sulle labbra umide della sua donna, gli stava costando caro. La vita forse.
Sentì dentro di sé che si avvicinava il primo, forse anche l’ultimo crocevia della sua vita, il momento in cui la “destra” e la “sinistra” in quanto scelte di percorso avrebbero esercitato un potere radicale sul suo futuro. “Vivere o morire? Resistere o lasciarsi andare?”.
Rigettando nel pitale affianco al letto, rimaneva lucido, gestendo quel male che montava, fulminante come un lampo su una vita rabbuiata dal dolore sopito, incancrenito nella parte più nascosta del suo sentire. Faccia a faccia, senza nessuno che sapesse, senza alcuno che avesse avuto modo di capire il momento, d’intervenire, d’interferire. Da solo quindi, completamente.
Fu quello il momento in cui la sua vita da sopravvissuto svoltò definitivamente. Il suo staccare la spina fu perentorio per gli anni a venire. Cancellata la sua adolescenza, congelato il percorso di amorosi sguardi all’emporio di mister Buff, nettato il suo ricordo di quel battito d’ali fra le sedute in chiesa e le parole di zia Lilian e l’ombra della betulla sulla collinetta. E il viso e le parole e la voce di Charlotte. E il suo corpo…Fu quello, forse, il segreto del suo sopravvivere al male di Charlie. Come se l’escludere un altro dolore immenso, dell’anima. Il potarlo dei suoi rami maleodoranti e invasivi, gli avesse permesso di trovare la forza per gestire il male fisico, il superare quella notte di dolore, di conati, di stanchezza infinita che ti parla di pace eterna, mentre il tuo tempo non dovrebbe scadere.
Vomitò otto volte in silenzio, con la porta della sua stanza chiusa al mondo, le ultime due inducendo d’istinto i conati con le due dita della destra in bocca, mentre la sua lucidità spaventava se stesso. Lo stesso suo male.
Freddo come ferro nella neve, non perché vivere davvero lo interessasse, ma solo perché l’essere trascinato via dalla stessa malattia del suo amore, gli pareva beffa troppo grande per il suo destino. Fu quello il momento in cui rilesse idealmente quel libro insignificante al fianco dell’ultimo letto di Charlie.
Mentre i muscoli del collo si tendevano a vista, il capo si protendeva verso il vaso da notte e la sua bocca si contorceva in smorfie di espulsione liquida, non aveva che da scegliere, sganciando la sua immaginazione verso infinite vette. Aveva pensato a un libro scritto da un arabo pazzo, un libro che potesse racchiudere in sé, in trame e periodare orrorifici, il segreto della vita, la libertà e la schiavitù dalla morte. Pensò a formule segrete, a riti magici di nefasta e innaturale provenienza, motti che consentissero agli uomini di andare oltre, sfidare i demoni, scendere a patti con l’inferno, e sopravvivere. Non c’era nulla di amorevole in quello, niente che potesse rapportarsi all’amore, eppure tutto da quello nasceva. Dall’assenza di Charlie, dal bisogno di non morire, ora, del suo stesso male, colto improvviso in una notte qualunque, davanti a un pitale nel chiuso della sua stanza di ex adolescente. Fu in quel momento, nell’istante esatto in cui pensò al suo libro dei morti, che la rotta del suo destino, gli piacque pensare oltre vent’anni dopo, fu invertita.
Nessuna “grande mietitrice” avrebbe appoggiato la sua falce sulle sue terga glabre, lui sarebbe sopravvissuto a tutto. Ai due dolori, ai due mali invasivi che gli contorcevano l’anima e le membra. Nella sua stanza di Providence Howard Phillips Lovecraft sopravvisse in qualche modo. Un “modo” che avrebbe capito solo molti anni dopo, sotto un lavabo pochi metri più in là, in fondo al corridoio. Tanto tempo, per un percorso così breve…
Lui si era salvato da solo e lo aveva fatto nella notte, sganciandosi dal buio del suo vissuto, estraniandosi dal dolore lancinante che lo avrebbe spinto verso la giovane Ripple, secondo quello schema romantico che avrebbe voluto “amore raggiungere amore”. Di romantico a Howard non sarebbe rimasto che qualche libro polveroso, incastonato nella sua libreria. Non ebbe paura nemmeno un istante nella notte di Providence con il viso proteso innaturalmente, non lo sfiorò l’ansia di dover scegliere, il timore di non farcela. L’orrore di dover morire. Non perché fosse un coraggioso, solo perché vivere o morire, a quel punto, per lui sarebbero state la stessa identica cosa. Per il suo sentire anestetizzato, per gli obiettivi che non aveva, per quell’amore ascetico eppure terreno che aveva perso. Per sempre. A soli 18 anni quel giovane allampanato aveva già percorso una vita intera in pochi mesi. Amando, soffrendo, conoscendo la morte, scegliendo di vivere. Una qualsiasi vita.
Aveva deciso di rimanere, agganciato alla sua esistenza terrena, con le unghie e con i palmi, con i denti e con la bocca, immaginando un libro insignificante letto al capezzale di Charlie. Un libro che nella sua immaginazione era diventato l’insana poesia interminabile che un arabo pazzo aveva indirizzato ai morti. Invocandoli e chiedendo intercessione.

Il giorno dopo sua madre e le zie si accorsero dei suoi ritardi, e capirono dal suo pallore verdastro. Howard fu ricoverato poche stanze più avanti di Charlotte giorni prima, lo portarono cosciente e lucido. Sapeva, sentiva che il peggio era passato che quel male fulminante non lo avrebbe preso, pensò solo a superare la pedanteria delle cure con la naturalezza di un’incoscienza, solo apparente. A gestire la nausea. Si beò beffardo dell’ansia delle zie e di sua madre, osservò la fredda asetticità dei medici, rimase olivastro in attesa. Di potersi alzare ed andarsene. Aveva un desiderio, voleva raccogliere tutti i suoi scritti di adolescente e farne un falò, a chiudere col passato, a fuggire dal dolore, a ricominciare. Daccapo. Su nuove basi di insana ma incredibilmente creativa autogerminazione.
Era nata in questo modo una delle chiavi di produzione e lettura del suo scrivere. Howard aveva forgiato, concependolo nelle cavità cancerose del suo dolore, il mito cui mise il nome, anni dopo, di “Necronomicon”. Come un inno putribondo destinato a un mondo parallelo, di bruttezze indicibili, di mostruosità mai concepite prima, un lungo ricettario di formule diversamente composte e mai veramente specificate che sarebbero servite ai suoi racconti, come la falce per mietere vecchi punti di vista, la zappa per estirpare le zolle di obsoleti capisaldi della letteratura orrorifica. Nel momento in cui superava di slancio il terrore della morte e ne schivava agile e gelido le sue concrete spire, Howard realizzò che il suo obiettivo più ambizioso sarebbe stato quello: non di vivere una vita ricca di successi e denaro e amore, in varie forme attinto, ma semplicemente di creare un mondo parallelo. Grazie alla sua penna, alla sua incredibile immaginazione che gli aveva permesso di salvarsi. La radice vera del suo immenso talento non si sarebbe dunque innervata su un terreno che ormai considerava banale e già ascoltato, ma si sarebbe poggiata su un originalità assoluta, ora che poteva permettersela, ora che la sua stessa vita, lui credeva, era stata salvata dalla propria creatività. Proteso su un pitale laccato a immaginare il suo libro in pelle umana a recitare formule, inni, invocazioni ai morti e ai loro demoni. Negli anni la sua produzione, per quanto svilita da pubblicazioni in riviste non all’altezza, da lettori non sempre attenti; mortificata da retribuzioni irrisorie, si sarebbe poggiata su quella base. Una base unica, irripetibile, ineguagliabile. Perché nata nell’anima e nella mente di un uomo unico, per la sua mediocrità nella scelta di non sentire nell’immediato, per la grandezza del suo autogerminare, attingendo dal “non sentito”. Anestetizzando l’immediato, attingendo nel profondo del suo vissuto.

Sotto quella betulla Lovecraft non smise di piangere silenzioso, si concesse solo una piccola pausa, ruvida sotto gli occhi, per le lacrime seccate dalla brezza. Godette del paesaggio bucolico di quello stralcio di New England, si beò, proprio come un “timeout” in una partita di football, della bellezza di tutto quel verde che lo circondava, con le casette in lontananza, le staccionate bianche e i viottoli di pietra che disegnavano iperboli fra i prati. Capì il perché aveva scelto quel punto nell’abbraccio alla sua Charlotte, si sentì sciocco per essersi privato di tutto quello, si scoprì indulgente nell’averlo deciso per sopravvivere. Era un’indulgenza che partiva da lontano, dalla consapevolezza di aver patito, oltre ogni limite.

“Howy non tradire mai il tuo talento. E’ un dono. Tieni le briglie in mano…” Le aveva sussurrato Charlie l’ultima sera, mentre lo guardava con gli occhi lucidi nel pallore. “Qualsiasi cosa accada non rinunciare mai ai tuoi sogni, alla tua vocazione. E’ una cosa bella, destinata alle persone rare. Non ti lasciar andare... Mai.”.
Lui non si sarebbe lasciato andare, avrebbe assecondato il suo talento. A lui avrebbe sacrificato tutto. La volontà di morire nella notte, quella di vivere una vita normale, fatta di pulsioni, di passioni, di emozioni, le stesse che invece schivava afferrandole di sbieco e depositandole nella sua anima, come si fa con dei vecchi vestiti smessi nell’armadio in soffitta. Aveva assecondato Charlotte e quel suo dire in punto di morte, aveva piegato la sua vita. A partire dall’istante in cui il suo amore se ne andava, lasciandolo solo. Non avrebbe tradito il suo talento, non lo avrebbe tradito al punto da sacrificargli tutto, da quella voglia insana di lasciarsi prendere dalla morte, fino a quel sentimento mutilato che lo aveva cinto a Sonia. L’ultima vittima di quel “mostro” che si era costretto a diventare. Tutto immolato sull’altare del suo scrivere.

Quando le prime luci cominciavano ad accendersi fra le casette della periferia di Providence Howard Phillips Lovecraft era ancora lì a fare il suo bilancio, partito da una macchiolina nera fra le unghie, prorotto squilibrato sotto un lavabo, continuato commuovente e patetico sotto una betulla.
Restava l’ultima domanda, la più tragica per lui. La più importante, naturalmente. Quella che un uomo normale, che ha voglia di essere o di ritornare tale, non può non rivolgersi se fa un bilancio. In qualsiasi momento esso arrivi.
“Ne è valsa la pena?” Si chiese a voce alta che aveva smesso di piangere e vagava con lo sguardo perso e sconcertato. “Che cosa ne ho fatto del mio talento? – proseguì poi, nella sua mente, mentre scriveva sul suo taccuino – Quali ne sono i risultati? Chi ne ha giovato? Se avessi saputo che ne avrei goduto solo io, solo la mia vanagloria, avrei scelto diversamente, forse mi sarei lasciato morire con la faccia in un vaso da notte.
Non è stata vita senza Charlie, non è stato che sopravvivere scrivendo. Non ho avuto che incubi e rabbia da vergare, non ho sentito che mostri, non ho visto che demoni. Li ho afferrati e li ho messi su carta. Facendo solo finta che fossero il frutto astruso della mia creatività. Ma essi non sono “frutto”, non sono nemmeno albero, sono solo lacrime che non danno vita. Emozioni mai vissute che generano fugaci emozioni per gli altri, mentre tu sfoltisci la tua anima e ti rendi vuoto come una bottiglia che galleggia senza una meta”.

Poi rialzò lo sguardo e fissò un punto qualsiasi, mentre i suoi occhi rivedevano la giovane Ripple. Si domandò per la prima volta nella sua vita se tutto quello non fosse stato che un tragico equivoco. Una di quelle circostanze per le quali ti viene detta e consigliata una cosa e tu la ritagli su te stesso, come se ti calzasse in pieno, quando in realtà essa è rivolta ad aspetti di te che nemmanco conosci.
Charlie amava Howard e lo conosceva come una giovane donna può conoscere il suo ancor più giovane uomo. Questo pensò Howard per la prima volta calandosi nel cuore del suo eterno amore, per la prima volta amando lei profondamente, la sua anima e non il riflesso che da questa si produceva sui propri sensi. Si disse che Charlie lo sentiva forte e passionale, unico per la sua capacità di amare e di smuovere le proprie emozioni per renderle materiali, fruibili per quel “noi” esondante che investita e trasformava tutto, gestendolo al servizio dei due giovani innamorati.
“…Che cosa poteva c’entrare in tutto questo la mia scrittura? I miei racconti onirici? La mia ingenuità creativa?..”
Charlotte Ripple aveva ascoltato i racconti giovanili di Howard, aveva sorriso, si era emozionata a quel periodare ancora acerbo ma incredibilmente calzante per le immagini del ragazzo che si mostrava, di settimana in settimana, sempre più creativo e trascinante; ma il suo sguardo.
Il suo sguardo, valutava ora Lovecraft sotto quell’eterna betulla, il suo sguardo non si beava del talento, di quel talento di scrittore in erba. Quei sorrisi non erano per la fluidità di quel periodare, per la contiguità fra l’immaginifico e il reale che nel suo produrre cominciava ad emergere. Charlotte non si beava di quanto fosse bravo a scrivere e a immaginare il suo giovane uomo. Forse non era nemmeno in grado di capire dove quel talento potesse portarlo. Lei..
“..Lei mi amava. Mi amava nonostante le mie bruttezze, malgrado la mia goffaggine. Non le importava in fondo della mia scrittura, se non come mezzo mio, straordinariamente personale, ma solo come mezzo…”Allora un’idea sconcertante nella sua semplicità luminosa, come un cuneo che s’infila nel conscio e si fa strada in virtù della sua forma acuminata e levigata come un semplice passaggio in un calcolo aritmetico, cominciò a pervadere la sua razionalità, a diventare padrona delle sue certezze su quelle ultime parole della sua unica vera amata.
Fu come scoprire, dopo un lungo viaggio destinato alla trasmissione verbale di un messaggio mnemonico, che si è dimenticato cosa dire. Ma Howard non aveva dimenticato. Cosa ancor più grave, aveva frainteso. Con la semplicità di un ragazzotto. Aveva ascoltato attento e commosso e si era infilato a forza le parole della sua compagna, come si fa con un abito stretto.
“..Il mio scrivere, il mio talento nel farlo. Le mie immagini, la mia creatività...Non a quelle erano destinate le parole di Charlie. Solo all’uomo, forse, alle sue emozioni, alla capacità di pulsare, di percuotersi in un amore, di donare tutto se stesso…”.
La vocazione che la sua Charlotte intendeva era “solo” la sua capacità di amare, di vivere, di emozionarsi, di godere dell’attimo e di renderlo un’eternità. Il suo dono era quello di poterne gioire e poterne fruire, come di un corpo agile slanciato nell’attitudine dell’atleta più vincente.
Nella sua bionda semplicità, Charlotte Ripple aveva divelto le porte dell’anima di Howy ed era stata investita come da un vento caldo che ti accoglie, spalancata la porta di casa in inverno. Ne aveva goduto, vi si era assopita, stupendosi di tutta quella grandiosità. Aveva, unica nella vita di Lovecraft, gettato uno sguardo nel cuore di quel giovane che diventava uomo. Aveva visto cose meravigliose, le aveva giudicate “talento”, aveva invitato il suo compagno a prendersene cura. A proteggere quella capacità di sentire. Di provare. Di vivere. Dal momento in cui lei non avrebbe più potuto. E Howard che cosa aveva fatto?

A 36 anni, sotto quella pianta, ormai a sera, con le lucine delle case sempre più definite nell’imbrunire, Lovecraft non sentì più il bisogno di piangere, mentre toccava la radice delle sue scelte più profonde. La stessa freddezza, prodotta da quell’antico equivoco, gli permise di realizzare la tragicità emotiva del suo errore. Diciotto anni prima.
“…Io ho vissuto a contrario. Ho tradito, senza saperlo. Ho gettato, quando avrei dovuto fruire, ho bruciato, mentre avrei dovuto scaldarmi. Ho sacrificato tutto a quel mezzo che è lo scrivere. Avrei dovuto vivere, non importa dei miei racconti, della mia creatività. Ho fallito, vivendo una vita monca fino ad ora. Sacrificate le membra del mio pulsare a un finto dio...Non fu l’ambizione, nemmeno la vanagloria, fu il bisogno di proteggere il mio talento. Sbagliato”

Sarebbe bastato a quello scrittore per larga parte incompreso, concedersi la possibilità di ripensare a quei giorni di Charlotte, senza celarsi il ricordo nell’animo. Sarebbe stato sufficiente concedersi allora, il pianto che lo investiva adesso. Sarebbe cambiato tutto. Il suo talento di scrittore sarebbe stato investito dalla sua emozione quotidiana, Howard avrebbe affrontato e gestito le proprie pulsioni come fanno tutti gli uomini “normali”: vivendo, vivendole. Lasciandosi frenare anche, tarpare le ali da quelle, giorno per giorno; ma godendo infine di poter vivere una vita vera. Senza viaggi onirici, mostruose creature inesistenti, ma con tanto più reale nella sua vita, da renderla concreta, con un peso ed una forma diverse da quelle fatue vergate sulla carta nei suoi romanzi. Ad Howard Phillips Lovecraft restarono solo quelli, infine, insieme alla così magra consolazione di aver capito se stesso, sceso in fondo alla propria anima, come farebbe uno spericolato speleologo. A esplorare ciò che da sempre si è celato, ma in tempi e momenti troppo diversi da quelli che erano opportuni. Per evitarsi di bruciare così larga parte dell’esistenza, votata fin lì ad autogerminazioni assurde e di inarrivabile bellezza.
Le sue lacrime di diciottenne, versate dall’uomo di oggi, ebbero il sapore amaro dell’irreversibilità di una condotta di vita sbagliata, appoggiata su un orrendo equivoco.
Sì, sarebbe bastato si fosse fermato a pensare alle parole di Charlie almeno una volta in quegli ultimi diciotto anni. Tutto sarebbe stato diverso.

Ormai a sera, ciondolando attonito giù dalla collinetta verso la periferia di Providence, lo scrittore respirò in pieno quel profumo di primavera inoltrata. Lo fece come un gesto normale, da uomo comune. Chiuse gli occhi è immaginò un momento della sua vita. Uno qualsiasi legato a quei profumi. Era questo un primo gesto istintivo di vita che viene vissuta, mentre passa e se ne va.